Il fallimento afghano è una resa incondizionata al fondamentalismo (di P. Romani)

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Il fallimento afghano è una resa incondizionata al fondamentalismo (di P. Romani)

02 Agosto 2021

Sicurezza, sviluppo e democrazia: queste parole d’ordine hanno guidato la missione di pace ISAF in Afghanistan. Vent’anni di combattimenti, di liberazione di territori dal controllo talebano, di aiuto concreto alla popolazione. Una guerra asimmetrica che ha visto caduti anche nelle nostre fila ma che aveva uno scopo preciso: ricostruire un paese libero, dove vi fosse rispetto dei diritti umani, in grado di avviare una ripresa economica. Non più una culla di sofferenza, fondamentalismo e terrorismo internazionale. Un impegno che i nostri militari hanno portato avanti con grande professionalità, capacità e dedizione, grazie anche al supporto di tanti afgani che in quel progetto hanno creduto.

Oggi quelle straordinarie donne e uomini che si sono fidati delle nostre promesse, a rischio anche della loro vita, stanno conoscendo il lato più meschino di un sedicente stato evoluto: le lungaggini burocratiche che li stanno condannando a morte certa. Mentre inesorabile avanza il fronte talebano, la lentezza italiana nelle procedure di asilo sta lasciando indietro coloro che hanno supportato le nostre operazioni. Difficilmente potranno, infatti, raggiungere Kabul, unico aeroporto operativo, per lasciare un paese nuovamente nel caos.

Quanto sta accadendo in Afghanistan, ed in particolare in quella regione attorno ad Herat dove le operazioni militari erano sotto il comando italiano e dove tutt’ora “si parla italiano”, dovrebbe porre più di una riflessione: siamo capaci di visione internazionale? Siamo in grado di creare condizioni di sviluppo e di relazioni commerciali? Siamo in grado di garantire la sicurezza del nostro Paese? Siamo capaci di sostituire lo strumento militare con la diplomazia commerciale?

Una risposta a queste domande era chiara già negli occhi di un militare che, ricordando i commilitoni caduti per liberare Bala Murghab, apprendeva del ritorno dei talebani in quella stessa area a poco tempo dalla cosiddetta transizione, il passaggio di consegne del controllo del territorio alle insufficienti forze afgane. Era il 2011. Abbiamo avuto 10 anni per comprendere che quel processo doveva essere corretto. Ma non lo abbiamo fatto. Né a livello nazionale né a livello di coalizione internazionale. Anzi il ritiro anticipato delle truppe ha fatto precipitare la situazione, dando il via alle forze talebane che, dai primi annunci di disimpegno statunitense, non hanno fatto che attendere il momento propizio.

Oggi quello che registriamo non è un fallimento militare ma politico. Uno dei tanti purtroppo di una politica estera priva di visione, di capacità proattiva, di esposizione internazionale dell’Italia al livello che merita. Un fallimento che questa volta condividiamo con tutte le forze della coalizione che non è stata capace di lasciare sul territorio un’idea di nazione diversa, costruita sulle radici e le tradizioni afgane ma capace di utilizzare gli strumenti della partecipazione democratica e della crescita economica.

Questo purtroppo evidenzia come abbiamo combattuto una guerra asimmetrica non solo nei numeri e negli equipaggiamenti, ma soprattutto nella forza delle idee. L’ultimo atto che stiamo compiendo, quello dell’abbandono di coloro che ci hanno sostenuti credendo in un futuro diverso per il loro Paese, rappresenta la resa incondizionata al fondamentalismo e alla violenza. Sarà l’Afghanistan a pagarne le conseguenze, ma forse non solo.