Il federalismo per ora è solo un segnale politico a Umberto Bossi

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Il federalismo per ora è solo un segnale politico a Umberto Bossi

19 Gennaio 2009

Il federalismo fiscale approda al Senato proprio mentre tra Pdl e Lega è in corso un braccio di ferro su più tavoli. Non è solo la questione Malpensa e l’accordo tra Alitalia e Air France/Klm a creare tensioni. C’è anche la riforma della giustizia, i fondi per il Sud, la sicurezza, gli sbarchi di clandestini e l’immancabile polemica su «Roma ladrona». In questo clima la settimana scorsa le commissioni Bilancio, Finanze e Affari Costituzionali di Palazzo Madama hanno dato il via libera al disegno di legge che arriverà in aula domani. Sul testo la maggioranza ha ritrovato compattezza. Le opposizioni hanno aperto al dialogo anche se si sono astenute, mentre Pdl, Lega e Mpa hanno votato a favore.

Umberto Bossi incassa così un’altra cambiale sul tema a lui più caro: l’avvio dell’iter parlamentare del federalismo rappresenta una carta determinante da spendere verso gli elettori del Nord. A Silvio Berlusconi, invece, in questo momento interessa frenare le liti interne alla maggioranza che rischiano di minare i consensi. E così, per calmare i bollenti spiriti del leader del Carroccio, arriva spedito un passo in avanti sulla riforma federale. Ma al di là dei risvolti politici, è sui contenuti che bisogna fermare l’attenzione per capire quale sarà il reale impatto del provvedimento.

Le critiche dell’opposizione sono su due fronti: le prime riguardano la preoccupazione per la copertura degli interventi. Le seconde invece si basano sul timore che la riforma determini un aumento della pressione fiscale invece che una sua diminuzione e razionalizzazione. Non si capisce allora perché il centrosinistra abbia bocciato l’unico paletto concreto che era stato fissato sul contenimento delle tasse. Il presidente della commissione finanze del Senato, Mario Baldassarri (Pdl) aveva proposto un emendamento che avrebbe consentito di indicare per legge il percorso da seguire: dopo l’approvazione del ddl e dei decreti delegati, la pressione fiscale non avrebbe dovuto superare il 42% per i primi due anni (oggi è al 43%), restare al di sotto del 40% nei tre anni successivi, fino ad arrivare in seguito a un livello in linea con la media dei paesi europei. Il governo e il relatore, Antonio Azzollini, avevano dato inizialmente parere favorevole, ma l’opposizione è arrivata a minacciare l’ostruzionismo e alla fine la proposta è stata respinta.

Così è stato fatto saltare l’unico impegno quantitativo contenuto nel provvedimento che, come è normale che sia trattandosi di un disegno di legge delega, si limita a tracciare i principi della riforma. «Si trattava di un emendamento condiviso da tutta la maggioranza – dice all’Occidentale il sottosegretario all’Economia, Daniele Molgora (Lega) – prevedere per legge un tetto alla pressione fiscale sarebbe stato senza dubbio un elemento di trasparenza nei confronti dei cittadini, basti pensare che in Svizzera tale livello è indicato nella Costituzione. La riduzione della pressione fiscale – prosegue Molgora – resta comunque l’obiettivo primario del federalismo».

Per avere qualche numero bisognerà però attendere ancora. Ma ci sono anche altri aspetti importanti che devono essere definiti con maggiore chiarezza nell’esame parlamentare del ddl e nella stesura dei decreti legislativi. È necessario innanzitutto specificare bene quali sono le funzioni che dovrà svolgere ogni ente territoriale (comune, provincia e regione) e con quali entrate dovrà fare fronte all’erogazione dei servizi. Sarà necessario elaborare un trasparente meccanismo di perequazione delle differenze di capacità fiscale. Lo Stato centrale, infatti, dovrà assicurare ai territori con minore capacità impositiva, che come noto sono concentrati al Sud, le risorse necessarie per erogare i servizi essenziali. Luca Ricolfi, sul settimanale Panorama, distingue tra gettito potenziale (quello che deriva da una minore reddito pro capite) e gettito effettivo (che dipende sia dal deficit di sviluppo sia da un eccesso di evasione fiscale). Ricolfi è convinto che lo Stato, per assicurare a tutti gli enti le risorse di cui hanno bisogno, ripianerà anche il deficit dovuto all’evasione e questo determinerà un inevitabile aumento delle tasse.

Il problema, in effetti, esiste. Per questo l’attuazione del federalismo deve considerare nel dettaglio un aspetto che finora è stato del tutto trascurato. E cioè quello relativo all’organizzazione degli uffici fiscali preposti al controllo, all’accertamento e alla riscossione dei tributi di ciascun ente territoriale. Con il federalismo fiscale si dovrebbe garantire il finanziamento integrale delle prestazioni essenziali (sanità, istruzione, assistenza, trasporto pubblico locale) sulla base dei costi standard (ogni ente trasferirà risorse in base a ciò che ogni ufficio fa e il prezzo di ogni prestazione non può variare da zona a zona). Ogni ente avrà la possibilità di avvalersi di propri tributi, ma tutte queste forme fiscali di finanziamento richiedono una struttura organizzativa efficiente per combattere le possibili sacche di evasione fiscale.

In altre parole: il federalismo può individuare sulla carta i vari tributi dei diversi enti, può fissare un tetto alla spesa e alla pressione fiscale, ma senza un adeguato sistema di controlli difficilmente le cifre preventivate saranno incassate. Con il rischio che tutto il sistema vada in tilt. Ecco perché l’avvio dell’iter parlamentare del federalismo per ora ha quasi esclusivamente un valore politico nei confronti della Lega Nord. Molti nodi, infatti, restano ancora da sciogliere.