Il Fmi ha parlato, lo Stato non faccia l’indiano a spese nostre: venda!
25 Gennaio 2012
Oggi dal Fmi è venuta una frasetta che spiega perché contuinuo a tenere da settimane come primo post quello del suo arrivo in Italia. Da Washington hanno poi corretto, ma come certo sapete il direttore degli Affari Fiscali del Fondo, Carlo Cottarelli, aveva testualmente detto una grande verità: “l’Italia non può farcela da sola”. Partiamo da qui. Per spiegare che un modo ci sarebbe. Se qualcuno desse retta. Diversi lettori reagiscono alla proposta qui avanzata – bisogna abbattere il debito pubblico lavorando sugli stock e non sui flussi, perché gli avanzi primari a spesa pubblica pressoché intatta nella sua crescita inerziale non fanno altro che ammazzare il paese con pressione fiscale sempre più record – chiedendomi di documentare meglio le basi documentali sulle quali insisterebbe la proposta. Giusta osservazione. A maggior ragione visto che lunedì il Corriere della sera ci ha rivelato che sarebbe allo studio una proposta che dell’attivo pubblico farebbe tutt’altro utilizzo. Oggi per fortuna liquidata dal ministro Corrado Passera. Partiamo dai numeri, dunque.
Segnatevi per cominciare questo indirizzo, dal portale del Tesoro, dove troverete gli estremi normativi e i criteri in base ai quali dal 2009 il ministero dell’Economia ha attivato una procedura di consultazione estesa ad oltre 9 mila soggetti diversi della Pubblica amministrazione centrale e periferica – novemila! – per compiere ogni anno una rilevazione sempre più accurata delle diverse componenti dell’attivo: crediti, immobili e terreni, concessioni, partecipazioni. E’ una ricognizione che affonda le sue radici e metodologie in proposte e criteri avanzate molti anni orsono da economisti come Gianfranco Imperatori e giuristi come Stefano Rodotà e Franco Bassanini, (gli interessati possono utilmente trovare i ragguagli più esaustivi a mia conoscenza nella corposa opera La finanza locale nello scenario globale, ed Gianfranco Imperatori onlus, 2010). A questo indirizzo invece troverete l’ultimo rendiconto dei beni immobili censiti al 31 marzo 2011, poiché questa è la data in cui ogni anno gli oltre 9mila diversi soggetti pubblici dovrebbero inoltrare al Tesoro la ricognizione completa dei loro asset. Domanda: avviene? ma certo che no! Naturalmente, non avviene. Lo Stato è inflessibile quando siamo noi cittadini-contribuenti a non ottemperare alla legge. Ma ovviamente chiude gli occhi quando sono pezzi di Stato, a sottrarsi al rispetto della legge. Troverete dunque che a marzo 2011 era solo il 53% delle amministrazioni pubbliche ad aver risposto. Il che comunque ha consentito di censire oltre 530mila unità immobiliari, per una superficie complessiva di oltre 222 milioni di metri quadrati, e quasi 760mila terreni, pari a oltre 13 miliardi di metri quadrati. Nel documento si indica la metodologia attraverso la quale seguendo i criteri dell’OMI, l’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del Territorio, e dell’AGEA, Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, si giunga a una stima approssimativa tra i 239 e i 319 miliardi di euro per gli immobili, e fino a 49 miliardi per i terreni. Ripeto. Si tratta di una primissima valutazione relativa a poco più del 50% dell’intera PA.
Per una altrettanto primissima valutazione complessiva invece del totale dell’attivo, andate a quest’altro indirizzo e troverete un pdf denominato patrimonio pubblico, le 19 pagine di slides presentate da Edoardo Reviglio al seminario sullo stesso tema tenutosi al tesoro, il 30 settembre scorso. La stima è ancora del tutto conservativa e per difetto, come spiega correttamente l’autore, che su questo lavora indefessamenteda anni, ora presso la CdP. Il totale dell’attivo è stimato in 1815miliardi, dunque poco meno del debito pubblico italiano che ha superato la quota che trovate in costante aumento a destra in altro sotto la nostra testata.. Di quei 1815 miliardi, i cui valori oggi sono sicuramente diversi, 276 erano cassa disponibile, 240 crediti e anticipazioni attive, 78 intangibles in buona sostanza le concessioni, 132 partecipazioni, 420 immobili (la stima resta molto modesta, se arrivavamo a 320 per metà della PA sei mesi prima), 386 infrastrutture, 176 risorse naturali, 37 beni culturali, 70 beni mobili. Ora i problemi, poi le soluzioni. Il primo problema abbastanza scandaloso è l’arretratezza – a distanza di anni dalla legge – con cui lo Stato risponde all’obbligo di sapere che cosa ha in pancia. Per uno Stato oltretutto il cui rischio d’insolvenza è salito drasticamente negli ultimi 7 mesi, avere una cognizione tanto modesta di ciò che garantisce il proprio debito è assolutamente intollerabile. Per non parlare della cura inesistente, visto che tale patrimonio costa più di quanto rende ( è così per l’intero patrimonio immobiliare, a cominciare dal milione e mezzo di unità immobilliari in carico agli ex Iacp locali che non – ripeto: NON !- sono compresi in questa prima stima ma vanno oviamente aggiunti). Il secondo problema è il valore “vero”, cioè di mercato. Ma la soluzione a questo c’è: lo deve calcolare chi è del mestiere, non lo Stato. Che cosa farne? Diceva lunedì il Corriere che nel governo sarebbe matura l’idea di proporre uno scambio, trasferire dal Tesoro alla Cdp quote di controllo per una cinquantina di miliardi di euro, abbassare così di 3 punti di Pil il debito pubblico poiché gli esborsi di CdP non configurano in Eurostat debito pubblico, e col ricavato il Tesoro pagherebbe buona parte dei 70 miliardi di euro che lo Stato deve a imprese fornitrici, che stanno morendo strangolate visto che lo Stato non ti paga a discrezione sua, ma le tasse e i contributi li pretende con puntualità assoluta.
Sono contrarissimo. Primo perché a Eurostat ci sparerebbero addosso. La Cdp grazie all’apertura del suo capitale al 30% in mano alle fondazioni bancarie e con peso rilevante nella sua governance, figura per questo come soggetto di mercato nel quadro contabile europeo. Ma se si usa raccolta postale – una passività, cioè debito pubblico – per una partita di giro al Tesoro, allora l’operazione non è affatto di mercato. E’ oltretutto un regalo improprio alle fondazioni bancarie: penso all’ipotesi che il Tesoro giri a CdP non solo quote di partecipate, ma anche concessioni, magari a cominciare da quelle televisive. Infine, è un modo travestito – ma neanche troppo – per dire che del recinto pubblico in realtà non si cede un bel nulla. Né ora né mai. Sai che affare. La proposta che ci convince è molto diversa. L’intero mattone di Stato, per cominciare cioè almeno 400 miliardi che sono circa 27 punti di Pil, va girato in dotazione patrimoniale a un fondo immobiliare chiuso costituito come veicolo di mercato, gestito tramite gara da privati, che lo valuteranno e lo cederanno nei tempi più adeguato al miglior realizzo. Che il più del patrimonio sia in capo alle Autonomie, e che in una certa percentuasle sia utilizzato dalle stesse amministrazuioni pubbliche, non – ripeto: NON – rappresenta probklema ostativo alla sua cesisone, quando è il rischio default che bisogna affarontare. Un simile fondo, anche se usa una leva finanziaria bassa cioè non superiore a 3, con tutti gli abbattimenti e le cautele del potrebbe emettere obbligazioni pari a una volta e mezzo almeno la stima iniziale del patrimonio, e concedere ai detentori di titoli pubblici italiani uno swap volontario col quale si inizierebbe da subito ad abbattere debito, con abbattimento progressivo per la quota totale di patrimonio negli anni necessari alla sua alienazione totale.
Ecco in che cosa consiste, la strada alternativa per la quale con le cessioni pubbliche abbattiamo il debito, e nel frattempo tagliamo però anche la spesa pubblica per un equilibrio di entrate a ben più basso livello di quello immaginato con la manovra triennale del governo Monti. Di mezzo, tra le due ipotesi, c’è la sopravvivenza economica dell’impresa e del lavoro italiani. Oltre a uno Stato molto più magro, e per questo – proprio per questo – costretto a diventare più efficiente.
(Tratto dal settimanale Tempi)