Il G20 si avvicina ma l’accordo tra i Grandi resta lontano
28 Marzo 2009
Londra si appresta ad ospitare un G20 a cui si chiede di fare molto contro la crisi economica mondiale, ma che probabilmente deluderà alcune aspettative a causa delle divergenze tra Usa, Europa e Cina.
All’inizio di aprile i vertici delle 19 maggiori economie mondiali e dell’Ue riuniti rappresenteranno il 90% del PIL mondiale, l’80% del commercio internazionale e circa due terzi della popolazione della Terra. Di fronte ad una crisi economica che per la prima volta dagli anni ’30 ha portato l’intero PIL mondiale in recessione, tre sono gli obiettivi che il G20 si è posto: coordinare le politiche nazionali di stimolo all’economia, rifondare il sistema finanziario internazionale, e riformare le maggiori istituzioni impegnate nella sua gestione a partire dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). Eccezionalmente, questo summit ospiterà anche rappresentanti del FMI, della Banca Mondiale, dell’ASEAN (Association of South East Asian Nations) e di altre organizzazioni regionali rafforzandone l’importanza come possibile perno della governance economica mondiale.
Il governo Brown che ospita e presiede il vertice attribuisce enorme importanza al G20, e non solo per migliorare l’immagine del premier in vista delle prossime elezioni politiche. Per capire quanto la Gran Bretagna necessiti di una risposta internazionale alla crisi economica, basti citare il fatto che per la prima volta in oltre 300 anni di storia la Bank of England ha stampato moneta, 75 miliardi di sterline per comprare titoli di stato e immettere cosi direttamente liquidità nel mercato. Oppure, per citare un caso non di alta politica monetaria, basti pensare che i municipi di Londra stanno conducendo una fortissima campagna verso i responsabili delle Olimpiadi del 2012 affinché i posti di imbianchino siano assegnati a lavoratori locali e non a immigrati dell’est Europa. Per una City che ambiva ad essere la capitale mondiale della finanza, doversi attaccare agli stipendi degli imbianchini comunali la dice lunga sulla gravità della crisi.
In questo clima si comprende perché si dibatta ovunque, dalle università più prestigiose alla stampa scandalistica, della crisi economica e del G20 proponendo terapie d’urto impensabili solo un semestre fa. Ad esempio, autorevoli economisti intervenuti ad una recente conferenza della London School of Economics hanno suggerito che il G20: si impegni a garantire con le riserve delle banche centrali la liquidità necessaria al sistema finanziario; lasci fallire le “bad banks” irrimediabilmente affette da titoli tossici; assegni 3 mila miliardi di dollari all’FMI per evitare che diverse economie emergenti vadano in default; concerti e attui massicci aiuti alla domanda globale, attraverso stimoli fiscali e investimenti pubblici.
Le alte aspettative non riguardano solo l’economia, ma anche la politica nel senso più proprio del termine. Infatti molto si parla di un “Grande Accordo” tra i leader mondiali che sostanzialmente coinvolga maggiormente i grandi paesi emergenti, in primis Cina e India, nella governance dell’economia mondiale. Ciò si tradurrebbe in una riformulazione del peso decisionale all’interno di istituzioni quali il FMI e la Banca Mondiale, con una drastica riduzione dell’influenza europea e americana a vantaggio di altre regioni del mondo a partire dall’Asia. Tale riforma rifletterebbe uno spostamento del baricentro dell’economia mondiale fuori dall’area transatlantica e servirebbe a responsabilizzare i paesi emergenti.
Responsabilizzare a quale scopo? Un’analisi dal consenso crescente afferma che la crisi è stata provocata anche dal fatto che paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna abbiano accumulato un grande deficit commerciale con paesi esportatori di prodotti manifatturieri, come la Cina, e di petrolio, come i paesi del Medio Oriente. Tale squilibrio della bilancia commerciale è stato compensato artificiosamente dal flusso di capitali dai paesi in surplus commerciale verso le piazze finanziarie anglosassoni, e dalla continua emissione di dollari e titoli di stato americani finiti in gran parte nelle casseforti del governo e delle banche di Pechino (e di Dubai). Ora che la domanda di beni è crollata nei paesi in deficit commerciale, trascinando al ribasso il commercio e l’economia mondiale, i paesi in surplus dovrebbero spendere e investire i risparmi accumulati per far ripartire la macchina economica mondiale.
Ma come convincere chi finora ha saggiamente risparmiato a rischiare una politica economica espansiva, che implica una riduzione del surplus commerciale e un rischioso deficit pubblico? Tramite la “carota” di un posto al sole nelle istituzioni internazionali che contano, e il “bastone” di una constatazione molto semplice: se l’economia globale va in recessione sia le esportazioni manifatturiere cinesi e indiane sia quelle petrolifere russe crollano, e così anche queste economie basate sull’export sperimenteranno la disoccupazione e le tensioni sociali che già allarmano l’Occidente. In verità questo processo si sta già verificando in Asia, come testimoniano le recenti manifestazioni di piazza a Mosca e, soprattutto, i 30 milioni di nuovi disoccupati cinesi che dalle città della costa stanno tornano nei loro villaggi di provenienza nelle campagne a gravare sulle famiglie e sullo stato.
Ammesso e non concesso che un “Grande Accordo” del genere serva a far ripartire l’economia mondiale, la sua realizzazione è poco probabile. Occorre infatti realisticamente chiedersi: gli Stati Uniti e l’Europa sono disposti a cedere ai nuovi arrivati parte del loro potere in istituzioni come FMI e Banca Mondiale? E i singoli stati sono disposti a subordinare maggiormente la propria politica economica istituzioni internazionali o a forum come il G20?
Ad esempio, Brown ha ottenuto l’appoggio dell’Ue e degli Usa per stanziamenti straordinari per l’FMI nell’ordine di alcune centinaia di miliardi di dollari, ma non è detto che la Cina ed altri paesi donatori siano disposti ad aumentare il contributo nazionale per questa istituzione e a rafforzarne i poteri. E questo nonostante il FMI stimi che nel 2008 almeno 16 economie emergenti rischiano una crisi come quella Thailandese del 1998, e necessitino quindi di un sostegno straordinario da parte delle istituzioni internazionali. Inoltre, l’amministrazione Obama ha ripetutamente chiesto agli europei di stanziare più fondi per sostenere l’economia, considerando che i paesi dell’Ue hanno finora messo sul tavolo una somma equivalente all’1,5% del PIL europeo contro il 5,5% del PIL americano cui ammonta il primo pacchetto di stimolo deciso da Washington. In particolare, nella conferenza stampa del 25 marzo, anche alla luce del colossale piano lanciato dal Tesoro statunitense per rilevare i titoli tossici nel sistema creditizio, Obama ha testualmente affermato di non volere “una situazione in cui alcuni paesi stanno facendo sforzi straordinari e altri paesi no, sperando che in qualche modo gli sforzi dei primi bastino per tutti”. Tuttavia i paesi dell’area Euro, Francia e Germania in testa, hanno risposto picche alla richiesta americana lasciando intendere che se la crisi è partita dagli Stati Uniti sono gli Americani a dover fare di più per risolverla.
Negli Usa però i sindacati, e la parte più protezionista della base democratica, pressano da sinistra Obama per sostenere l’economia americana costi quel che costi, e per non destinare i pochi dollari a disposizione al FMI o ad altre istituzioni internazionali. Allo stesso tempo Obama deve fare i conti con un’opposizione repubblicana che, forte di un comune sentire nell’opinione pubblica e nella cultura statunitense, osteggia sia il ricorso eccessivo al deficit spending sia una crescente regolazione pubblica, nazionale o internazionale che sia, dell’economia. A questa pressione congiunta si aggiunge il fatto, significativo, che l’ultimo rapporto delle agenzie di intelligence americane identificano come prima minaccia proprio la crisi economica: se gli Stati Uniti, più o meno consapevolmente, iniziano a fare della crisi una questione di sicurezza nazionale lo spazio per un approccio multilaterale si riduce ulteriormente. Il risultato complessivo è una forte spinta domestica affinché l’amministrazione Obama trovi soluzioni nazionali per i lavoratori, le banche e le imprese americane.
Alla luce di queste posizioni di partenze, la speranza recentemente espressa dal Ministro degli Esteri britannico Miliband di realizzare attraverso il G20 un “multilateralismo inclusivo” dovrà fare i conti con una difficile realtà. Il punto è che un consesso come il G20, così come altre ampie istituzioni internazionali, può funzionare efficacemente solo se c’è una forte leadership che si impegna a trovare soluzioni condivise dai paesi maggiori, a sostenerle e a farle accettare ai partner riluttanti. Obama dopo qualche cautela ha affermato di voler guidare uno sforzo internazionale efficace e concertato con quattro obiettivi: evitare il protezionismo, finanziare la ripresa del credito e dell’economia mondiale, assistere i paesi in difficoltà, e riformare il sistema finanziario internazionale in base a criteri di responsabilità e trasparenza per evitare future crisi di questa portata. Tuttavia la Cina si presenta con una propria agenda, parzialmente differente da quella americana. L’Europa invece fatica ad articolare una posizione comune, e rischia di trovarsi stretta tra Washington e Pechino finendo col rimpiangere il G8 nel quale era il partner privilegiato degli Stati Uniti. .
In questo complesso contesto internazionale è difficile prevedere quanto le buone intenzioni espresse da Miliband e Obama possano tradursi in realtà, e qualsiasi passo significativo che il G20 di Londra riuscisse a compiere oltre il classico comunicato finale pieno di belle parole sarebbe di per sé una buona notizia.