Il G8 di Trieste dovrebbe affrontare i veri mali che affliggono l’Africa
24 Giugno 2009
di Anna Bono
Un miliardo di persone, un sesto dell’umanità, non mangiano abbastanza: circa 100 milioni in più rispetto al 2008. L’ultimo rapporto della FAO, appena pubblicato, conferma i dati parziali forniti negli scorsi mesi da altre agenzie delle Nazioni Unite. In valori assoluti, la situazione più critica resta quella dell’Asia, con 642 milioni di affamati, pari a circa un sesto della popolazione. In termini percentuali il primato spetta ancora una volta all’Africa e in particolare alle regioni subsahariane dove oltre un terzo degli abitanti patiscono la fame: 265 milioni su 788.
Il peggioramento delle condizioni generali di vita nei paesi emergenti e in quelli a basso livello di sviluppo è da attribuirsi in parte alla crisi economica internazionale. Per quanto riguarda l’Africa, tre fattori negativi si assommano: il prezzo inferiore delle materie prime sui mercati internazionali, le minori entrate derivanti dalle rimesse degli emigranti e la contrazione degli investimenti stranieri.
Per rimediare – sostengono gli esperti ONU – occorre da un lato soddisfare i bisogni alimentari urgenti delle popolazioni a rischio e dall’altro varare piani articolati di intervento nel settore agricolo per migliorare la resa delle piccole imprese contadine dotandole di sementi, fertilizzanti, attrezzi, infrastrutture. Al soccorso alimentare è inteso che provveda la comunità internazionale e così pure alla realizzazione dei programmi di sviluppo agricolo di competenza dei governi che, secondo le Nazioni Unite, devono essere assistiti: dove per “assistere” si intende innanzi tutto e fondamentalmente “finanziare”.
In sostanza non si propone nulla di diverso da quanto finora intrapreso durante i decenni successivi alla decolonizzazione: se ne desume che l’esperienza dei fallimenti accumulati anno dopo anno, paese dopo paese, non ha insegnato molto ai dirigenti delle agenzie ONU. I vizi di fondo sono due. Il primo è pensare che gli africani si possano salvare migliorando la resa dell’agricoltura a base familiare, destinata essenzialmente all’autoconsumo. Lo sviluppo economico e sociale, in Africa come altrove, ha invece bisogno di cambiamenti strutturali che consentano di superare il livello delle economie di sussistenza e di rapina e di passare a economie produttive, industriali: il che peraltro non si significa neanche costruire, come si è fatto in parallelo al sostegno alle attività agricole tradizionali, fabbriche come “cattedrali nel deserto”.
Il secondo vizio di fondo è il pregiudizio che attribuisce ai leader africani buona volontà, senso di responsabilità, impegno per lo sviluppo, devozione alla causa dei diritti umani mentre malauguratamente un mondo esterno ostile – i paesi industrializzati, le multinazionali, la globalizzazione… – frappone ogni genere di ostacolo e ne vanifica gli sforzi.
Basta guardare alla realtà attuale per rendersi conto di quanta parte del continente non corrisponda a questa descrizione. Dall’Oceano Atlantico a quello Indiano non c’è quasi nazione che non mostri i segni delle promesse di democrazia e buon governo non mantenute. In Senegal la recente e contestata creazione di una nuova carica, quella di vicepresidente, preannuncia una successione pilotata da parte dell’attuale presidente, l’83enne Abdoullaye Wade, in favore del figlio Karim. In Guinea Bissau, dopo l’uccisione a marzo del presidente Joao Bernardo Vieira, si va alle elezioni di luglio in un clima tesissimo: già due candidati alla presidenza sono stati assassinati.
Altrettanto critica è la situazione in Mauritania e in Guinea Conakry, entrambe sospese dall’Unione Africana: la prima per il golpe militare dello scorso agosto e la seconda per quello di dicembre, organizzato dai militari all’indomani della morte del presidente Lansana Conté. Un altro colpo di stato a marzo ha gettato nel caos il Madagascar, costringendo all’esilio il presidente Marc Ravalomanana. Il mese successivo è stata la volta del Togo, con il fallito golpe organizzato da Kpatcha Gnassingbe, fratello del presidente in carica Faure Gnassingbe. A maggio una nuova crisi politica si è quindi aperta in Niger, in seguito alla decisione del presidente Mamadou Tanja di indire, malgrado il parere contrario della Corte Costituzionale, un referendum popolare per ottenere la soppressione dell’articolo di legge che limita a due i mandati presidenziali che una persona può svolgere: in vista della scadenza del suo secondo incarico presidenziale, Tandja, come altri suoi colleghi prima di lui, non è disposto a cedere il potere.
Nigeria, Mali, Ciad, Sudan, Repubblica Democratica del Congo: questi stati, e altri ancora seppure con livelli di scontro minori, da anni fanno i conti con conflitti interni irrisolvibili. Ma, quando non si combatte, anche la stabilità ha un prezzo doloroso: come in Kenya e in Zimbabwe, entrambi usciti da una crisi politica post elettorale con la costituzione di un governo di unità nazionale ed entrambi con un terzo degli abitanti bisognosi di assistenza alimentare.
Last, but non least, c’è il caso della Somalia, con i suoi clan in lotta per la supremazia dal 1991, sempre disposti a promettere unità e pace e tuttavia sempre in armi, indifferenti al destino di una popolazione ormai per metà priva di mezzi di sostentamento: si tratta della peggiore crisi umanitaria del mondo, un bambino su quattro muore prima di compiere cinque anni. Proprio nei giorni scorsi si è scoperto che i responsabili locali del Pam, il programma alimentare delle Nazioni Unite, vendono ai commercianti di Mogadiscio il cibo destinato agli sfollati.