Il gene della libertà non esiste
21 Marzo 2008
Il mantra della sinistra pacifista – “Bush ha mentito, la
gente è stata uccisa” – domina a tal punto il dibattito sulla guerra irachena
che ha messo in ombra altre questioni reali che invece meriterebbero un esame
più attento. Dopo tutto, per quelli di
noi che hanno supportato la guerra, ribattere gli argomenti a favore delle armi
di distruzione di massa è diventato automatico. Noi facciamo riferimento alle
risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le dichiarazioni della Agenzia
Internazionale per L’Energia Atomica, le analisi della Cia, il report
Silberman-Robb e le scoperte del Comitato dell’Intelligence del Senato – se mai
avessimo torto saremmo di certo in buona ed onesta compagnia.
Ma che dire allora di tutte quelle supposizioni sbagliate e
non ancora esaminate? A guardare indietro, potevo dirmi sicura del fatto che
tutti quelli che anelavano alla libertà, una volta liberi, l’avrebbero usata
bene. Mi sbagliavo. Non esiste un gene della libertà e nemmeno un manuale d’istruzioni
per capire la virtù della società civile, o quella del voto segreto e dei
partiti politici. E alla fine scopriamo che vivere sotto la tirannia di Saddam Hussein per
decenni ha condizionato gli iracheni ad accettare una leadership senza legittimazione,
abbracciare le sette e le tribù piuttosto che le idee, e tollerare la
corruzione a briglia sciolta.
Qualcuno ha speculato sull’immaturità politica dell’Iraq
come prova che la guerra era sbagliata, e come se in qualche modo chi è
politicamente meno evoluto non meriti le libertà che comunque non saprebbe
utilizzare. Invece ci farebbe più comodo capire in che modo il mondo libero
possa incoraggiare ad apprezzare le fondamenta della società civile in modo da
aiutare le vittime della tirannia quando è il loro turno.
© New York Times
Traduzione Andrea Holzer
Danielle Pletka è vicepresidente dell’American Enterprise Institute.