Il governo Berlusconi, gli elettori e il rigurgito partitocratico

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Il governo Berlusconi, gli elettori e il rigurgito partitocratico

17 Agosto 2007

Perché il governo Berlusconi, che pure ha avuto una continuità senza precedenti nella storia della repubblica, non è stato premiato dagli elettori alle scorse elezioni politiche? La domanda, tutt’altro che peregrina, è stata posta qualche giorno fa da Ernesto Galli della Loggia in un editoriale del “Corriere della Sera”. Il 10 agosto, l’on. Sandro Bondi ha provato a rispondere a questo interrogativo. Fra i motivi elencati da Bondi nel suo intervento converrà citare per esteso il secondo: “lo sfilacciamento della coalizione negli ultimi due anni di legislatura, quando Berlusconi si trovò a fronteggiare i rigurgiti da prima repubblica messi in atto in particolare dall’ineffabile Marco Follini dell’Udc, con una crisi di governo da operetta e con l’imposizione di una nuova legge elettorale come condizione per non far saltare il banco e la legislatura”.

Con questo rilievo Bondi individua sicuramente il punto di svolta dei cinque anni di governo berlusconiano. A partire dalla primavera del 2004 e fino alle elezioni politiche della primavera 2006 si è assistito a un fortissimo rigurgito partitocratico. Pratiche ed usanze che componevano il vasto campionario teratologico della prima repubblica, e che si sperava  fossero oramai estinte, sono improvvisamente tornate in vita. Le “verifiche” sono ricomparse come il poco appetibile pane quotidiano del dibattito politico; le crisi di governo, fatte o minacciate, per futili motivi si sono improvvisamente ripresentate all’ordine del giorno. Tutto questo con grave nocumento per la incisività dell’azione di governo.

Tuttavia, individuare con precisione la svolta cronologica della scorsa legislatura non esaurisce l’argomento. Occorre chiedersi, ancora, perché i malcapitati cittadini hanno dovuto subire questo sgraditissimo ritorno di fiamma partitocratico. Il fatto è che nel 2004 i dirigenti della Casa delle libertà hanno tentato di politicizzare, cioè di usare come un test di verifica dell’azione di governo, le elezioni europee. Incuranti del detto celebre per cui errare è umano ma perseverare è diabolico, hanno ripetuto, semmai con toni anche più accentuati, lo stesso errore in occasione delle elezioni regionali dell’anno successivo. In questo modo si è tornati a dare legittimità a un modo di procedere tipicamente partitocratico che ha caratterizzato il passato regime.

Durante la prima repubblica le elezioni politiche non servivano a designare il governo per tutta la legislatura, ma si risolvevano in un grande rito identitario. La maggioranza era sempre la stessa, a netta prevalenza democristiana. I governi dipendevano dagli equilibri interni del partito dominante e dei suoi alleati di turno e solo in modo assai indiretto dal volere degli elettori. Questo portava a una sorta di equiparazione tra il voto politico e quello di altre competizioni elettorali (amministrative, europee) che in teoria avrebbero dovuto esprimere valutazioni relative a diverse arene politiche. Dopo ogni votazione (anche assai parziale) i risultati venivano attentamente analizzati per ridiscutere gli equilibri fra le varie correnti del partito dello scudo crociato e delle compagine governative. La rottura del 1994, quella che giustifica la dizione di seconda repubblica, ha imposto una prassi diversa. Il voto delle elezioni politiche deve servire a indicare un governo tendenzialmente di legislatura, che si presenta con un preciso programma agli elettori e ne risponde alla fine del mandato. In questo modo il dibattito politico non è più una sterile contrapposizione ideologica in cui prevalgono le spinte identitarie, ma diventa un confronto (a volte anche assai aspro) su scelte concrete, empiricamente verificabili. Se questo passaggio non è avvenuto perfettamente ciò si deve solo in parte alla mancata riforma costituzionale, cui Bondi fa giustamente riferimento, ma anche ad un fattore che possiamo definire genericamente “culturale”.

Nei palazzi romani domina ancora una mentalità dorotea, che porta a guardare con occhio indulgente le niceties partitocratiche e a lodare come ricettacolo di sapienza politica tutte le pastoie che si possono frapporre tra il voto degli elettori e la composizione e l’azione dei governi. Se vogliamo rafforzare la democrazia dell’alternanza, adeguando finalmente la vita pubblica italiana a standard di civiltà europea, occorre certo una riforma costituzionale che rafforzi i poteri del premier, ma è altrettanto necessario sbarazzarsi da una forma mentis che è del tutto incompatibile con una democrazia immediata in cui quello che conta è il voto degli elettori.