Il governo di Monti è l’ultima epifania di una crisi che viene da lontano

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Il governo di Monti è l’ultima epifania di una crisi che viene da lontano

24 Febbraio 2012

Una premessa: il governo Monti è “tecnico” in quanto non rappresenta una maggioranza elettorale uscita vincitrice da elezioni svolte sulla base di un programma specifico e con un leader preventivamente indicato. Un trimestre concede la distanza critica per cercare di capire come ci siamo arrivati. Cominceremo col dire che nel 1978 si ammala la Repubblica del 1948. 

La morte di Aldo Moro provoca l’arroccamento della DC al governo e del PCI a difesa della costituzione antifascista. Lo stallo favorisce un PSI pragmatico senza adeguata fondazione culturale (erano gli anni ottanta).

L’agonia comunista consentì di nascondere sotto il tappeto la crisi politica che stava montando, poi però la Bolognina e Tangentopoli disintegrano il sistema e condussero i reduci del PCI e i dossettiani della DC ad incontrarsi all’ombra dell’Ulivo sotto la leadership di un tecnico: Romano Prodi.

Dopo vent’anni la crisi è ancora virulenta e si sono aggiunte una crisi sociale dovuta all’emancipazione etica dei diritti e una crisi economica figlia delle scommesse della borsa su valori finanziari ancora non esistenti (i future e le options).

I partiti si affermano (tra il XIX e il XX secolo) grazie ad idee così forti da diventare ideologie. Il XXI secolo assiste alla loro crisi per mancanza di nuove idee guida. Questo uno degli esiti cui il PDL ha contribuito votando una legge elettorale che priva i cittadini del diritto di scegliere i propri parlamentari!

La crisi di rappresentatività dei partiti è imputabile a tre fattori sussidiari, l’impoverimento culturale della società; le mancate riforme istituzionali; la conflittualità politica.

Comincio dalla prima, l’innesco.

Quando a metà degli anni ‘80 i partiti finalmente si accorsero del fossato che li separava dalla società decisero che il problema era la complessità del messaggio e scelsero di semplificare il lessico e il ragionamento. Ma in men che non si dica si sono ritrovati ad affidarsi al marketing e a promettere livelli di vita anziché a proporre idee e modelli di vita.

Eppure avrebbero dovuto rammentare che il rapporto con l’elettorato dipende dalla capacità di proporre soluzioni originali ai problemi nuovi nella prospettiva dei propri elettori e quindi di conciliare le conclusioni raggiunte con gli interessi degli elettori che si vogliono conquistare per allargare il consenso.

Questa doppia capacità è però andata perduta per la mancata elaborazione dei limiti delle culture dominanti emersi dal fallimento del comunismo.

La cultura laica – ad esempio – ha perso il controllo etico della società quando, caduto il marxismo, è franata sotto il maglio del permissivismo e dell’emancipazione liberal – riformista e si è fatta convincere dal Mercato che l’uomo può realizzarsi attraverso la gratificazione dei suoi bisogni materiali. Ma nessuno ne ha tenuto conto.

La cultura marxista è invece implosa quando nel 1989 l’URSS e la DDR iniziarono a mendicare la sopravvivenza dalla Germania Occidentale. Perché in quel momento tutti si accorsero che aveva inneggiato a una prospettiva che aveva “ucciso il desiderio: scatenato l’ubriachezza, la delazione, la corruzione e ridotto tutto a un unico denominatore: l’egualitarismo” (come uno dei demoni di Dostoevskyj).

Quanto alla cultura cattolica, dopo aver dimostrato che il darwinismo spiega cosa è l’uomo ma non chi sia l’uomo, ha perso l’occasione per confrontarsi con la modernità scientifica insistendo su Cuore invece che su Ragione per indicare la specificità dell’essere umano e sull’uso del termine Verità come sinonimo di dovere.

Ma il peggio è che tutte e tre queste culture – come la politica – hanno abbassato il tono del messaggio anziché costringere i destinatari a impegnarsi per comprenderlo e hanno finito per consentire che talento e capacità individuale cessassero di essere i criteri di scelta della classe dirigente del paese.

Di fronte a quelle che la politica ha interpretato come licenze culturali, i partiti hanno trasferito tutto sul piano della prassi politica e lasciato che si interrompesse il collegamento fra assetto generale degli interessi (ossia proposta politica) e decisione legislativa. Ma in conseguenza la legge ha perduto i caratteri di generalità e astrattezza ed è dilagata la microsettorialità normativa. Da qui il fallimento di ogni seria politica di delegificazione normativa e semplificazione amministrativa.

La seconda ragione di crisi sono le mancate riforme istituzionali le quali non sono imputabili a carenza culturale ma a prepotenza culturale.

La nostra Costituzione nasce dalla ribellione contro un autoritarismo ma la radicalità con cui le forze social-comuniste rivendicarono il monopolio dei suoi presupposti storico-culturali diffuse la convinzione che in Italia fosse necessaria una palingenesi e che doveva venire dalla resistenza. Ne derivò uno strabismo della Costituzione che impedisce alla Corte Costituzionale di aggiornarne i principi e imbalsama strutture e procedure impedendo qualunque riforma.

Certamente la nostra Carta ha impedito il collasso della convivenza democratica durante i picchi di tensione (eversiva e sovversiva) che si sono succeduti, rimane però il fatto che la prospettiva anti-fascista (e non post-fascista) ha favorito la cultura del nemico politico (rispetto a quella dell’avversario politico). 

Questo presupposto culturale e la sua lettura alla luce del principio marxista (che qualifica gli avversari politici come nemici del popolo) condusse ad impalmare la Costituzione di risentimento e diffuse nella società senso di estraneità verso l’idea di nazione e le istituzioni statali (che si erano macchiate di contiguità con il fascismo), per non dire dell‘insofferenza verso i principi liberali dei movimenti risorgimentali che al fascismo si riteneva avessero fatto da apripista.

Questo spiega perché a 60 anni dalla fine della guerra, l’Italia non ha ancora avuto il suo 8 maggio 1995, giorno in cui il riunificato popolo tedesco ha indicato l’8 maggio 1945 come unica data di liberazione dal Nazismo e dal Comunismo. Terza e ultima ragione di crisi è la conflittualità politica.

Essa è diretta consenta delle ricordate “imparzialità razionale” e di “insufficienza di soggetto costituente” nonché delle valanghe partecipativa e egualitaristica che hanno investito i partiti proprio mentre scomparivano le ideologie come indicatore identitario.

In un società già schiava della religione dei diritti, le ricordate valanghe hanno indotto i partiti a inseguire gli elettori tanto che partecipazione (politica), solidarietà (sociale), semplificazione (amministrativa), flessibilità (contrattuale), competitività (economica) sono divenute parole d’ordine per tutti.

Diversamente però da quanto ci si attendeva, all’attenuarsi del confronto tra principi e programmi non è seguita aggregazione ma frazionismo e addirittura personalizzazione del confronto politico.

Verrebbe a questo punto naturale concludere che la soluzione tecnica di governo sia figlia della incapacità della politica di fare le scelte necessarie a salvare il paese. C’è però anche un’altra prospettiva, la quale poggia sulla surrogazione dei partiti nella funzione di cinghia di trasmissione fra politica e società.

A partire dagli anni 1970 la politica ha iniziato a pubblicizzare alcuni istituti privati (la stampa e i media, le associazioni di categoria, gli ordini professionali: di cui oggi si chiede la liberalizzazione se non la soppressione) e a regolamentare alcune relazioni fra privati (il rapporto di lavoro subordinato, la proprietà intellettuale, l’attività d’impresa ecc): di cui oggi si impone la riforma.

L’idea era di farne altrettanti strumenti di lotta politica. Il fatto è che non era stato calcolato il ritorno assertivo delle associazioni nelle quali i titolari dei relativi interessi si sarebbero organizzati una volta pubblicizzati.

Forti infatti del nuovo statuto questi organismi hanno trasferito in sede extraparlamentare la mediazione politica e trasformato in compromesso tra loro quella che sarebbe dovuta essere conciliazione di interessi particolari nell’interesse generale. Quanto detto chiarisce ovviamente a favore di chi i partiti hanno perso ruolo.

Ignoriamo se quelli di cui parlo siano i poteri forti cui il Presidente del Consiglio ha fatto cenno nel discorso di insediamento e replica ma di certo quelli in questione non sono poteri deboli. Non sono però poteri occulti, perché derivano dalle fusioni di interessi individuali che si sono legittimamente organizzati come “potenze private” per perseguire fini legittimi del capitalismo. Il problema è che la loro attività segue un protocollo urticante: l’autoreferenzialità.

L’autoreferenzialità è propria dei settori  privati ad alta concorrenza. Non di meno sono stati fissati limiti per evitare che sia utilizzata a tutela degli interessi personali dei vertici. Però nel pubblico non si fallisce, non c’è possibilità di scalata in senso ordinario e soprattutto i soggetti sono autoritativi. Per queste ragioni l’autoreferenzialità non veste la politica rappresentativa mentre è l’abito da lavoro della soluzione tecnica.

La politica deve “far navigare i battelli sul Reno”, la soluzione tecnica invece si deve limitare ad approntare le condizioni per la navigazione. La politica deve “conciliare interessi confliggenti”, la soluzione tecnica di governo limitarsi a farli coesistere mentre adottare le decisioni necessarie a recuperare efficienza alla navigazione del Reno.

Il governo tecnico si risolve in definitiva in “un mandatario senza alcun mandante” per questo non può non avere ha natura eccezionale, scopi e tempi puntuali e nessuna connotazione politica. Il che non vuol dire che non abbia una maggioranza parlamentare che ne sostiene e legittima l’azione. 

In politica non esiste la soluzione migliore ma solo la migliore possibile in un determinato contesto: tasse, ammortizzatori sociali ecc.,  sono solo leve per mantenere in equilibrio il processo di sviluppo. La soluzione tecnica di governo è una di queste leve. Ad essa si è giunti di fronte ad una crisi di rappresentatività che la sinistra vive in modo contraddittorio perché il PD non è risultato il “partito olistico” capace di fondere le culture politiche che l’ulivo sommava. E la mancanza di una opposizione propositiva è stata decisiva per la soluzione tecnica di governo.

La politica raccoglie opinioni e le impasta in consenso per offrire decisioni.

Decidere però crea dissenso, perché nessuna decisione può avere carattere ecumenico: decidere è scegliere, preferire, non predicare, i politici predicatori sono demagoghi. Ma quando la politica ha paura delle decisioni impopolari è perché non si sente autorevole ossia si sente carente di condizione etica esemplare.

E’ strano ma in democrazia la politica per essere autorevole deve essere presieduta da un valore antidemocratico: l’etica. L’etica non dipende difatti da quanti ne condividono i principi tanto meno da quanti li osservano.

Ma l’etica non è quella dei principi e dei costumi dei santi né il guscio vuoto degli scettici o il freno all’agire dei managers saccenti. L’etica è semplicemente il coraggio di fare la cosa giusta anche se si è soli.

Il rapporto che dovrebbe esserci fra politica ed etica fa venire in mente il passo della poesia di Robert Frost che recita:  “divergevano due strade nel bosco io presi la meno battuta e questo ha fatto la differenza”.

Come a dire che per recuperare autorevolezza la politica deve tornare a scegliere la via meno battuta la più difficile, quella per aver scelto la quale gli Italiani sembrano fidarsi ogni giorno di più del governo Monti.