Il Governo mette Dpef e Manovra sullo stesso binario. Ma a sinistra non piace
07 Luglio 2008
Arriva oggi in Aula alla Camera il Dpef 2009-2013 che dovrebbe essere varato in settimana per approdare poi a Palazzo Madama. Anche in questa circostanza l’opposizione ha trovato da ridire, lamentando la ristrettezza dei tempi per la discussione e soprattutto la contestualità della presentazione del Documento e della manovra anticipata di cui al decreto 112.
Così, la sinistra ha perso un’altra occasione per innovare la propria cultura di fondo. Ed ha subordinato alle esigenze della polemica politica la sua partecipazione ad un processo di indispensabile rinnovamento del percorso legislativo che conduce alla Legge finanziaria.
Da anni, nelle ormai frequenti critiche alle procedure della manovra di bilancio una campeggiava tra tutte, accettata e generalmente condivisa: la ricorrente dissociazione tra le linee di un Documento di programmazione economica e finanziaria varato in estate e i contenuti della manovra vera e propria che arrivava in Parlamento a settembre e ci restava fino a Natale.
Il Dpef era il libro delle buone intenzioni, dei "pensieri alti"; la Finanziaria diventava prima o poi un convoglio sul quale maggioranza e opposizione tentavano di caricare tutto e il suo contrario. Queste considerazioni non sono di chi scrive. Basta andare al Libro Verde sulla spesa pubblica predisposto dal ministro Tommaso Padoa Schioppa nella passata legislatura. “ Gli obiettivi macro-economici e di finanza pubblica illustrati nel Dpef – sosteneva l’allora ministro di Prodi – rimangono spesso scollegati dai processi amministrativi di gestione della spesa pubblica; è necessario individuare modalità che permettano di rendere coerenti i macro-obiettivi all’interno delle specifiche azioni perseguite dalle amministrazioni. Il processo di presentazione delle proposte di variazione della legislazione vigente – proseguiva il Libro Verde – non è definito né dalla normativa né dalla prassi e si realizza attraverso un approccio a volte disorganico che non garantisce una coerenza con gli obiettivi di finanza pubblica non solo con riferimento ai saldi ma anche agli obiettivi di contenimento della dinamica della spesa pubblica; ciò implica una predisposizione convulsa durante le ultime settimane di settembre con il rischio di errori materiali e formali”.
Ecco perché dovrebbe essere apprezzata – nel metodo prima ancora che nel merito – la scelta compiuta dal Governo di "contestualizzare" la presentazione e la discussione del Dpef con l’anticipo per decreto della manovra, collocando ambedue gli atti in una prospettiva triennale volta a conseguire il pareggio di bilancio. Si supera così la scissione tra la parte c.d. programmatica con proiezione pluriennale e la parte c.d. attuativa limitata al solo anno immediatamente successivo.
Questa scelta, che in realtà valorizza il ruolo del Dpef proprio perché ne rende credibili gli obiettivi, ha suscitato l’interesse e il consenso di tutti gli osservatori nazionali ed europei. Per la prima volta dopo anni, un Governo della Repubblica – lo stesso che dopo due mesi di vita ha provveduto a redistribuire 2,3 miliardi di euro agli italiani attraverso la completa abolizione dell’Ici sulla prima casa e la detassazione di voci retributive legate alla produttività – non si è limitato a scrivere delle promesse in un documento di programmazione, ma ha preso con chiarezza e trasparenza degli impegni con delle norme, agendo d’anticipo in un contesto difficile dell’economia. La nuova impostazione non viola le regole, ma si limita ad innovarle e soprattutto consente di giudicare l’esecutivo tanto per quello che dice quanto per quello che fa. E con un anticipo di mesi. Vi sono poi alcuni aspetti di merito sui quali si sono appuntate le critiche dell’opposizione.
Parte del maggior prelievo sarà restituito ai cittadini che versano in più gravi condizioni, attraverso la c.d. social card che servirà per acquistare prodotti alimentari e pagare bollette: una proposta, questa, che ha ricevuto un’accoglienza singolarmente critica, in un Paese in cui, negli anni scorsi, un governo di centro sinistra inventò la c.d. scontistica per la previdenza complementare delle casalinghe ovvero la possibilità (per le casalinghe, appunto) di avvalersi dei buoni sconto rilasciati dai supermercati per finanziare la propria pensione di scorta. Ovviamente si dovranno attendere le norme di attuazione prima di esprimere dei giudizi definitivi. Per adesso ci limitiamo a dare la parola a Maurizio Ferrera, un autorevolissimo studioso di politiche sociali vicino al Pd, al punto di aver collaborato al suo programma nella Commissione Morando. Ferrera, in un articolo sul Corriere della Sera del 3 luglio, ha sospeso correttamente il giudizio sulla "carta sociale prepagata" rinviandolo a quando il progetto sarà definito, ma si è dilungato a spiegare in termini positivi “un’esperienza non troppo dissimile già da tempo in corso negli USA: il cosiddetto Food Stamp Program”. I beneficiari (sono circa 26 milioni) ricevono dall’Amministrazione una carta elettronica che consente loro di acquistare a prezzi scontati prodotti alimentari presso supermercati convenzionati.
Quanto agli aspetti strutturali vi è adeguata coerenza tra il Dpef e la manovra. In proposito mi limito a sottolineare due aspetti: da un lato le misure di deregolazione del lavoro che possono dare nuovo impulso all’occupazione (sarebbe il caso di parlare, con un linguaggio in voga nella XV Legislatura, di "Lenzuolata" del ministro Sacconi); dall’altro il ruolo strategico che assume il piano industriale della pubblica amministrazione del ministro Brunetta. Nel Dpef è soprattutto quest’ultima riforma ad avere in carico la sfida di dare maggiore competitività al Paese, poiché si calcola che una riduzione degli oneri del 25%, da realizzare al 2012, produrrebbe un impatto complessivo potenziale stimato in 75 miliardi di euro. Anche in questo campo, il Governo non si nasconde dietro le enunciazioni general-generiche e "buoniste" della lotta agli sprechi. E’ evidente che un contenimento del peso della pubblica amministrazione richiede anche politiche più rigorose nella gestione del personale. A partire dagli organici e dalle retribuzioni.
Ecco allora alcuni dati Istat, ripresi dal Corriere della Sera del 5 luglio. Negli ultimi otto anni, dal 2000 al 2007 compresi, le retribuzioni di fatto dei dipendenti pubblici sono aumentate del 35 per cento, il doppio dell’inflazione che si è fermata al 17 per cento e molto più dei lavoratori privati che hanno conseguito incrementi del 20%. Se i vari governi di questi anni fossero riusciti a retribuire i dipendenti pubblici con gli stessi criteri dei privati avrebbero risparmiato una somma pari a 60 miliardi di euro, 7,5 miliardi l’anno. “Se si va a guardare il Dpef – ha riconosciuto Nicola Rossi – si scopre che il governo tende a coinvolgere il pubblico impiego nell’opera di contenimento degli stipendi”. Questo riconoscimento è un titolo di merito che la maggioranza dovrebbe rivendicare.
Arriviamo così alla questione del tasso d’inflazione programmato all’1,7% nel 2008 e all’1,5% negli anni successivi: un tasso che dovrebbe essere di riferimento – è un fermo proposito – per i rinnovi dei pubblici dipendenti. Constatiamo una ripresa preoccupante dell’inflazione e riteniamo che non sarebbe una politica saggia consolidarne gli effetti attraverso una rincorsa salari prezzi, tanto più che si tratta largamente di inflazione c.d. importata. A questo proposito, è calzante un’ultima e conclusiva citazione. Un autorevole economista come Mario Deaglio ha scritto su La Stampa del 2 luglio (sia l’autore, sia il quotidiano non sono sicuramente amici del Governo) quanto segue: “L’inflazione attuale deriva prevalentemente dall’aumento dei prezzi dei beni importati e tale aumento non ha ancora scatenato un’ondata di aumenti salariali, tesi a ripristinare il potere d’acquisto perduto; se e quando quest’ondata si scatenerà, l’inflazione si diffonderà in ogni settore e sarà molto più difficile curarla”. Ecco perché è coerente l’obiettivo dell’inflazione programmata all’1,7% nel 2008 e dell’1,5% per quelli successivi proprio per evitare, in linea con le indicazioni della Bce, la spirale prezzi-salari e non perdere competitività.