Il governo Monti vada dritto sulla riforma dell’art. 18
22 Marzo 2012
di John Galt
Il governo mostra i muscoli e tira dritto sull’art. 18. Tutto bene, dunque? In linea di principio, la nuova norma sulla flessibilità è del tutto condivisibile, ma quale potrebbe essere, ragionevolmente, la sua attuazione concreta? Lo scenario è semplice.
In Italia, si sa, l’azienda che presenta i conti peggiori è la pubblica amministrazione, dove un numero spropositato di dipendenti garantisce, in media, livelli di produttività da siesta messicana. Da decenni sentiamo dire che i costi di quel mammut vanno ridotti e che è necessario sottoporre l’intero apparato ad una pesante cura dimagrante perché esso pesa come un macigno, in termini di tasse, sul settore privato (famiglie ed imprese).
L’introduzione della norma sui licenziamenti facili parrebbe, dunque, l’occasione ideale per procedere alla tanto auspicata operazione di alleggerimento. Epperò, anche se si riuscisse (in tempi ragionevoli) ad avere la meglio sulle solite barricate ideologiche, ecco che, come sempre accade in simili frangenti, una valanga di ricorsi di ogni genere finirebbe con l’intasare gli sgangherati tribunali repubblicani, di fatto paralizzandone il funzionamento.
Per non dire, ovviamente, della affannosa corsa in difesa delle proprie clientele da parte di decine e decine di onorevoli, anche loro ossessionati dall’idea di poter perdere il posto (anzi, lo scranno). Verosimilmente, i costi di tutto ciò sarebbero di molto superiori ai risparmi consentiti dall’operazione di riduzione del personale, così anche il più gagliardo dei tecnici si guarderebbe bene dal dare fuoco alle polveri.
In prospettiva, dunque, i mancati tagli non consentiranno le attese riduzioni fiscali (alle liberalizzazioni abbiamo già rinunciato) e le poche aziende private che saranno rimaste in piedi al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina dei licenziamenti saranno, grazie alla cura Monti, ormai cianotiche. Ma ecco che uno spiraglio si aprirà per esse: la flessibilità in uscita per i loro dipendenti. “Se le tasse non vengono tagliate”, penserà il generico imprenditore ormai alla frutta, “posso sperare di tirare avanti ancora un po’ contenendo i costi del personale.
Non quello ‘svantaggiato’, naturalmente, se no diventa discriminazione e poi mi tocca pure la manfrina del giudice ideologizzato. A proposito,” continuerà egli a rimuginare tra sé e sé “domani devo ricordarmi di comprare ‘Repubblica’, per avere una lista aggiornata delle categorie socialmente protette”.
Un fiume di italiani, per lo più maschi, di età compresa tra i trenta cinque e i sessanta cinque anni (meglio se Cattolici) finiranno, così, con il farsi compagnia in strada, costretti a dipendere da magri sussidi di disoccupazione straordinari, finanziati dall’ennesima accisa sul carburante e graziosamente concessi dai soliti onorevoli (magari proprio quelli, piacevolmente brizzolati, che, qualche anno prima, si erano fatti sfilare un paio di decine di milioni di contributi pubblici da sotto il naso).
Naturalmente, fino al momento del licenziamento, i malcapitati continueranno a pagare, al leviatano e ai suoi poco solerti dipendenti, fior di imposte dirette e indirette (ad una aliquota di almeno venti punti percentuali sopra quella ufficiale), alle quali va pure aggiunta la svalutazione galoppante da inflazione cartacea (recentemente ossigenata, per così dire, dai mille, patriottici miliardi stampati, sulle rive del Meno, da Mario Draghi). All’arrivo della tempesta, dunque, i neo disoccupati si troveranno pure a corto di risparmi. Mazziati e cornuti.
In occasione del referendum del maggio 2000, chi scrive votò a favore dell’abrogazione dell’art. 18 ed ancora oggi, oltre a chiedersi dove siano finiti i radicali di una volta, crede fermamente nei vantaggi che potrebbero derivare da una seria liberalizzazione del mercato del lavoro (molto meglio se depurata dalla immancabile concessione al condiviso lacrimevole di turno: in questo caso, il mantra della discriminazione, che porterà parecchi grattacapi soprattutto ai piccoli imprenditori).
Oggi abbiamo di fronte un’altra, importante occasione per modernizzare il paese. Mille esecutivi hanno dovuto, in passato, battere in ritirata di fronte all’incedere compatto (e sindacalizzato) delle infinite legioni dell’impiego pubblico. Al momento, è sin troppo facile prevedere la inapplicabilità di fatto, ai lavoratori statali, regionali, comunali, parastatali e via discorrendo, delle eventuali, nuove previsioni sui licenziamenti.
Ancor più semplice è prevedere le nefaste conseguenze di ciò sulla salute finanziaria delle imprese private e sul destino dei loro dipendenti. Che il Governo approfitti dei prossimi mesi per dimostrare di avere il nerbo necessario ad imporre scelte dolorose anche in casa propria. Una falsa partenza sarebbe, oltre che deleteria per l’economia, parecchio pericolosa per la civile convivenza.