Il grande errore di non consegnare l’Iraq agli iracheni
21 Marzo 2008
Dopo aver sconfitto la dittatura dei talebani in Afghanistan e averla
rimpiazzata con una democrazia in fasce, l’amministrazione Bush si concentrò
sulla minaccia posta dall’Iraq di Saddam Hussein a una nazione ancora
vacillante per gli attacchi dell’11 settembre.
Personalmente ho condiviso la posizione
dell’amministrazione sulle armi di distruzione di massa, secondo cui l’Iraq non
solo aveva la capacità di produrle, ma ne aveva anche una riserva nascosta.
Responsabile di due guerre con più di un milione di morti, da decenni complice
di gruppi terroristici, solito ricompensare in denaro gli attentatori sucidi, riluttante
a fornire indicazioni su dove fossero le armi chimiche e batteriologiche (che
in realtà aveva già impiegato), Saddam Hussein portò la questione alle estreme
conseguenze: avremmo dovuto lasciarlo al suo posto e sperare per il meglio, o
distruggere il suo regime in un colpo solo e mettere così fine al pericolo che
potesse collaborare con i terroristi in un attacco anche più devastante dell’11
settembre?
Venne presa la decisione giusta, e Baghdad cadde in 21
giorni con pochissime perdite sul versante nemico. Furono liberati 25 milioni
di iracheni e la minaccia del mostruoso regime di Saddam fu finalmente
eliminata.
I problemi
cominciarono dopo. Invece di consegnare l’Iraq agli iracheni per dare avvio al
difficile processo di nation building,
il gruppo comprendente l’allora Segretario di Stato, Colin Powell, il
consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, e il direttore
dell’intelligence, George Tenet – con l’approvazione del presidente Bush –
annullò un piano che prevedeva il conferimento del potere agli iracheni.
Al contrario, andammo avanti con una occupazione mal
concepita che non fece altro che agevolare la sanguinosa insorgenza da cui noi,
con gli iracheni, stiamo uscendo solo adesso.
A Baghdad fu allora spedito un governo americano, nella
presunzione che fossimo più capaci degli iracheni. Ma Paul Bremer sottovalutò
l’incarico, e fece del suo meglio per realizzare politiche insensate. Da parte
mia, non credevo che l’amministrazione fosse capace di creare tanto scompiglio.
Non dico che la coalizione a guida americana avrebbe
dovuto lasciare l’Iraq il giorno stesso della caduta di Baghdad. Le truppe
della coalizione erano essenziali per sorreggere il nuovo governo iracheno. Ma mi
stupì (e scoraggiò) il fatto che non ci rivolgemmo agli oppositori più importanti
e rappresentativi di Saddam Hussein perché assumessero la responsabilità di un
governo ad interim mentre si preparavano le elezioni. Le nostre truppe potevano
rimanere stanziate nel Paese sulla base di un accordo negoziato in maniera trasparente,
con il compito di aiutare la popolazione irachena a ricostruire la loro
società, cosa che noi non abbiamo saputo fare e mai neppure avremmo dovuto provare.
Dopo cinque anni di terribili perdite, forse gli iracheni hanno ora questa
opportunità.
© New York Times
Traduzione Emiliano Stornelli
Richard Perle è Resident Fellow all’American Enterprise Institute.