
Il Guardasigilli dell’Antipolitica

14 Maggio 2020
Nella pièce surreale magistralmente messa in scena nell’arena mediatica di Non è Giletti, il Ministro Bonafede si è trovato a dover fronteggiare un’accusa non certo banale, che sembrava a tratti riecheggiare una vicenda processuale assai nota.
Secondo l’ipotesi accusatoria, la recente concessione degli arresti domiciliari, per motivi di salute, a 3 detenuti posti in regime di 41 bis, avrebbe costituito un grave cedimento alla criminalità mafiosa, la quale avrebbe così portato a compimento, con la complicità dello Stato, il disegno eversivo estrinsecatosi nelle rivolte carcerarie di marzo.
Tutto ciò sarebbe avvenuto a causa delle scelte improvvide compiute dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, il quale avrebbe stimolato la scarcerazione dei detenuti più a rischio senza curarsi di seguire con la dovuta attenzione la posizione dei “mafiosi”, alcuni dei quali ancora in attesa di giudizio, in modo da consentire ai Tribunali di Sorveglianza l’emissione di provvedimenti di segno diverso.
Inoltre, secondo un testimone di accusa quanto mai attendibile (niente di meno che un Magistrato), il Ministro avrebbe già precedentemente rinunciato ad affidare la gestione delle carceri italiane ad una guida davvero affidabile ed incorruttibile (nella specie allo stesso Magistrato) a seguito della diffusione di intercettazioni telefoniche da cui emergeva la intuibile contrarietà di alcuni esponenti mafiosi.
Malgrado le indubbie capacità del regista Giletti, la scenografia è parsa fortunatamente deboluccia, tanto da essere ricondotta ad un semplice equivoco dalla sapiente penna di Marco Travaglio, vero mentore dell’Antimafia e dell’Anticorruzione del ventunesimo secolo ed interessato innanzitutto a preservare l’alleanza trasversale con Davigo e Bonafede da possibili fattori di perturbazione.
Dal canto loro, i tanti italiani che non avevano mai avuto modo di conoscere il dott. Di Matteo, pur riconoscendone pregiudizialmente l’autorevolezza nascente dal ruolo, sono rimasti inevitabilmente destabilizzati da quella telefonata in diretta, sia per l’assurda incapacità dei rappresentanti dello Stato di mostrarsi doverosamente uniti a fronte di questioni così rilevanti, sia per l’inquietante facilità con cui possono circolare simili allusioni, spesso destinate ad essere poi veicolate nelle aule di giustizia senza alcuna seria verifica.
Attendersi una qualche autocritica da parte del Ministro sarebbe stato ovviamente illusorio, così come sarebbe stato ingenuo auspicare una qualche consapevolezza da parte del Partito Democratico della sconcertante deriva intrapresa in questa legislatura in tema di giustizia. Da questo punto di vista il copione era già stato validato dall’assurda riforma della prescrizione, in forza della quale ogni cittadino può essere sottoposto a processo senza limiti di tempo: tutti sanno che non ha alcun senso, ma tant’è.
In assenza di qualsiasi significativa reazione politica ed a fronte del comprensibile imbarazzo della Magistratura, Bonafede ha potuto addirittura spingersi oltre, arricchendo la sua personale lotta all’impunità da un nuovo importante capitolo. Dopo le leggi “spazza-corrotti” e “spazza-prescrizione”, è stata pertanto varata anche la legge “spazza-domiciliari” che dovrebbe condurre i Magistrati di Sorveglianza a schiudere nuovamente le porte del carcere a tutti i mafiosi o presunti tali, prescindendo – se possibile – finanche dalle loro condizioni di salute.
Non è dato ovviamente sapere se le plurime ragioni di principio che rendono inaccettabile un simile approccio riusciranno prima o poi ad affermarsi, posto che una recente decisione della nostra Corte Costituzionale sul c.d. ergastolo ostativo è stata a sua volta salutata dal partito di Travaglio come un ulteriore regalo alla criminalità organizzata al quale il legislatore era chiamato a porre immediatamente rimedio.
Ed allora, l’interpretazione data dal Guardasigilli al proprio mandato induce a considerazioni più ampie rispetto all’eterna contrapposizione fra giustizialismo e garantismo e che riguardano piuttosto la fragilità della politica nell’epoca della comunicazione minimale di massa.
Sotto questo profilo, è infatti difficile negare che il povero Bonafede abbia fatto tutto quello che gli era umanamente possibile per tener fede ai suoi impegni, ovvero per continuare a manifestare all’opinione pubblica la sua convinta militanza nel partito degli onesti: ma più di questo non gli si sarebbe davvero potuto chiedere.
Perché per combattere seriamente la corruzione sarebbe stato necessario ragionare sul decadimento della nostra pubblica amministrazione e sul ruolo asfissiante della burocrazia, piuttosto che aumentare a dismisura le pene e la conseguente discrezionalità giudiziaria.
E per evitare l’assurdo maturare dei termini di prescrizione sarebbe stato necessario riformare la giustizia, inchiodando i magistrati e gli avvocati difensori alle loro responsabilità, piuttosto che ingolfare ulteriormente il sistema con processi relativi a fatti di 10 o 20 anni prima.
E per ridurre il ricorso agli arresti domiciliari per motivi di salute sarebbe stato necessario rafforzare il sistema carcerario, costruendo nuovi istituti, implementando i presidi sanitari e sostenendo la formazione di personale idoneo.
Tutto questo, come ben sa Bonafede, è molto al di sopra delle sue possibilità e di quelle del Governo, per cui sarebbe sbagliato anche solo parlarne.