Il guardiano della Torre
12 Aprile 2009
Sulla grande Torre piove a scroscio, l’acqua gorgoglia per tegole e grondaie, ribolle negli scoli, si perde in vortici schiumosi giù per i doccioni fino ai pozzi che si aprono nelle fondamenta scoscese. Dalla mia finestrella scruto invano questa immensa vacuità fumosa in cui guizzano argentee le grosse corde della pioggia. Del resto l’aria è quasi sempre infoscata, e anche nei giorni di sereno è raro che da queste altezze vertiginose si riesca a scorgere l’ondulata pianura su cui sorge la Torre.
Ma a volte da ponente si leva un vento gagliardo che sibila tra gli archi e gli aerei pinnacoli, scuote usci e vetrate, si avventa contro i muraglioni. I torpidi gonfaloni si tendono, le grandi arpe di pietra e di cuoio vibrano come cuori presaghi e tutta la Torre si anima di un fremito industrioso. Allora contro il cielo azzurro si stagliano lontanissime montagne, il sole carezza i fianchi scoscesi della Torre, dorandone le pareti e i contrafforti dirupati, e la sua grande ombra si allunga sulla pianura, possente, cupa ed elusiva. Tutti allora si affacciano alle finestre, escono su terrazzi e balconi, affollano i ballatoi e le altane e a lungo, silenziosi e commossi, contemplano quell’ombra, se ne indicano ipotetici particolari, cercano di vedere dove e come la sua radice si stacchi da quella della Torre, di cui è insieme testimonianza e simulacro.
Io sono uno dei quattordici Guardiani della Torre, e ho passato gran parte della mia vita a osservarla, a frugarne i recessi, a percorrerne le scale e i corridoi. Eppure ogni volta che mi affaccio su uno dei profondi cortili interni o che indugio in uno dei policromi giardini incassati tra alte muraglie, mi stupisco della sua complicata e possente struttura come se la vedessi per la prima volta. Chi potrà mai capire la Torre, racchiuderne nel cuore un’immagine compiuta e trasparente come una goccia di rugiada?
Mi allontano dalla finestra, prendo l’arco e la faretra colma di frecce, dò un’occhiata in giro per la stanza, controllo che nella mia bisaccia vi siano il pane, la miccia e l’acciarino, ed esco per l’ispezione mattutina. Il mio compito è quello di preservare la Torre dalla rovina che sempre la minaccia per la sua vecchiezza e per la sua stessa immensità. Devo segnalare con grandi falò ogni guasto, ogni crollo, ogni cedimento. Subito allora giungono squadre di operai, di muratori, di falegnami e di fabbri che riparano, aggiustano, inchiodano e restaurano sotto la guida inflessibile di alcuni dei nostri Sapienti. Questo della manutenzione della Torre è un compito arduo e sfibrante, poiché certe parti, fatte di legno, di cuoio e di stoffa, si deteriorano presto sotto l’azione dei venti, delle piogge e dei frequenti terremoti che scuotono l’immenso edificio dalle fondamenta.
Dall’aereo pianerottolo su cui dà la mia porta, prendo a destra per una scaletta di pietra e comincio a salire lungo una parete cieca che si slancia verso il cielo compatta come una roccia. Alla mia sinistra un baratro dove con lunghi sospiri cadono rivoli e cascatelle d’acqua piovana e, al di là, un muraglione tormentato da lesene, trabeazioni, capitelli affogati, un inestricabile e quasi prodigioso mosaico di stili e di incrostazioni architettoniche sovrapposte. I gradini sono umidi, qua e là verdi di muschio, devo far attenzione a non sdrucciolare. Mentre salgo, lentamente si spiega davanti ai miei occhi il panorama vasto e stratificato di questo edificio immane e mi pongo le solite domande senza risposta: chi costruì la Torre? E perché? E’ vera la leggenda dei grandi Maestri? Di certe sue parti ormai ci sfugge il significato, anzi tutta la Torre è per noi un mistero di pietra e di cristallo che sfida la nostra comprensione.
Basterebbe un solo allucinato interrogativo a riempire le notti che ci restano da vivere: perché non possiamo uscire dalla Torre? Quale tacito e inesorabile divieto c’impedisce di calarci fino alle sue fondamenta di roccia, di uscire sull’immensa pianura, di camminare per un gran tratto fra sassi e sterpi, con il cuore colmo di trepidazione, e di volgerci infine a contemplarla da lontano, questa nostra dimora, per essere certi finalmente che essa si levi davvero nel mezzo del grande pianoro, per mirare la sua forma infinitamente congetturata, il suo vero colore? Quelli che hanno tentato l’impresa e si sono calati per i sordi corridoi, per le scalette precipiti, per le chiaviche lubriche, sono poi risaliti spaventati, con racconti di caverne, di pozzi smisurati, di sonori stillicidi nelle viscere inestricabili della pietra…
Sono giunto a un ballatoio sospeso su un abisso grigiastro. Sotto di me la parete di faccia è inquietata da mensole e grondatoi, scorgo lontane muraglie traforate da finestre e porticati, la pioggia batte su oscillanti ponti di corda sospesi su spacchi profondissimi.
Riprendo lento a salire per la scaletta, verso il cielo compatto e corrucciato. Nella Torre siamo in molti e ciascuno ha un compito preciso, anche se mi riesce difficile capire quello dei Sapienti. Di solito se ne stanno chiusi nelle loro celle a pensare e a scrivere, e stemperano l’oscurità dei crepuscoli e delle lunghe notti con fumose candele. Essi riflettono sulla Torre, indagano la sua storia, la sua forma, il suo significato; quasi nessuno di essi, peraltro, ha mai visto la Torre, perché se ne stanno sempre lì, ai loro tavolini, e solo pochi, quando hanno elaborato una teoria – sullo sviluppo di un certo corridoio, sul suono di una certa arpa, sui colori di un certo giardino – escono a verificarla. Ma forse, in un certo senso, fanno meglio gli altri, quelli che non escono mai, anche se il risultato delle loro riflessioni è talora stravagante, talora assurdo e sempre lontanissimo dalle solide mura e dalle vaste sale di legno e di vetro che io vedo nelle mie perlustrazioni. Una volta un vecchio Sapiente mi regalò un suo disegno della Torre così come essa apparirebbe da un punto imprecisato e molto lontano della pianura: la Torre vi è raffigurata ampia e massiccia, molto più larga che alta, e poco articolata rispetto all’impressione che ne ho io che la percorro di continuo. Questo disegno, che ho appeso al muro presso il mio giaciglio, non è brutto, ma per me non ha alcun significato vero.
Ho accennato ai Sapienti che vanno in giro a verificare le loro teorie, e qui debbo dire che oltre al compito di segnalare ai restauratori i crolli e i danni prodotti dal tempo e dalle calamità, noi Guardiani ne abbiamo un altro, più spietato e geloso: dobbiamo difendere la Torre dagli attacchi subdoli e raffinati di certi Sapienti i quali, se trovano la realtà – la disposizione delle sale, la successione dei pinnacoli, il ritmo delle bifore – in contrasto con le teorie che hanno elaborato nel fondo delle celle, invece di modificare le loro ipotesi, con crudeli strumenti di ferro qui abbattono una parete, lì aprono un arco o murano una porta. Queste segrete mutilazioni, si capisce, sono pericolosissime e perciò dobbiamo essere inflessibili e spietati. Ecco perché i Guardiani hanno sempre con sé l’arco e le frecce, ecco perché sono temuti e, forse, odiati.
La pioggia è cessata e sopra di me nel fumigante strato di nubi si aprono squarci di azzurro. I corvi riprendono i loro andirivieni tra le mensole e gli altissimi porticati e affidano i loro rauchi gridi alle gelide correnti che lambiscono i muraglioni. Sono giunto in cima alla scala e da un ballatoio di granito scruto le umide pareti, i cortili, i tetti spioventi che digradano sotto di me, qua e là chiazzati da un incerto sole meridiano. Nulla e nessuno in quest’ora di silenzio. Proseguo il mio giro.
Non si deve attentare alla Torre, essa deve rimanere così come gli antichi Maestri l’hanno costruita. Nella sua composita e incoerente struttura c’è una soggiacente rigorosa unità che va preservata – o, forse, c’è solo un’esigenza, un bisogno, un’aspirazione all’unità, che promana dalle vaste superfici, dalle ininterrotte successioni di sale, dalle intricate travature annerite dal tempo.
Ciò che mi è difficile comprendere è come questa esigenza d’immutabilità si concili con quanto di recente mi è stato rivelato dal Guardiano più vecchio, che l’ha saputo a sua volta da uno dei Sapienti. La costruzione della Torre – dicono – non è terminata, anzi mai come oggi essa è stata alacre e indefessa. Essa naturalmente avviene nell’ombra, di nascosto da noi Guardiani, ma per quanto mi sforzi non riesco mai a scoprirne i segni. Forse perché – come mi ha confidato il mio vecchio collega – le nuove costruzioni non riguardano le strutture dell’edificio, i comignoli, le stanze o gli anditi, ma qualcosa di più sottile e riposto, che egli non ha saputo descrivermi e che io non so immaginarmi se non, forse, come la complessità della sua immagine o il riflesso che essa suscita in noi. In questo senso l’interpretazione e la descrizione stessa della Torre si trovano di fronte a problemi sempre nuovi, e i Sapienti devono ricominciare sempre daccapo.
Nella Torre c’è tutto: gli orti e i giardini pensili, a migliaia, ci forniscono cibo e ristoro, le grandi cisterne ci dànno un’acqua bruna e riposata, ma noi ci sentiamo profondamente inquieti, come se fossimo prigionieri in un carcere troppo vasto. Brancoliamo confusi in questo ciclopico edificio dai molti perché, alla ricerca di verità congetturali e sfuggenti che diano significato alla nostra ansietà.
Qualche centinaio di braccia sotto di me, sulla muraglia opposta, vedo un altro Guardiano – lo stesso mantello di panno, gli stessi calzari, lo stesso arco a tracolla – che cammina guardingo su uno stretto cornicione, fino a scomparire dietro un contrafforte ricoperto di neri rampicanti.
Fu veramente per superbia – come sostengono alcuni Sapienti – che gli antichi Maestri costruirono la Torre? Fu veramente un sacrilego atto d’orgoglio che li spinse all’emulazione di Dio? E fu per questa ribellione che essi e i loro discendenti, cioè noi, furono rinchiusi in questa prigione nei secoli dei secoli, senza potere non dirò uscirne, ma neppure capirla? Altri Sapienti sostengono, e mi pare con fondatezza, che Dio creandoci avesse anche creato la possibilità (o la necessità) che fosse costruita la Torre: parlare di castigo divino sarebbe dunque una blasfema accusa di limitatezza nei confronti dell’onniscienza di Dio.
Un’altra teoria – e neppure questa può essere dimostrata o confutata – vuole che i Maestri abbiano costruito la Torre a gloria di Dio e a Sua immagine e somiglianza e, in più, col Suo diretto aiuto e compiacimento; e che sia questa sua natura quasi trascendente a renderne tanto ardua la comprensione. Se così fosse, si capirebbe anche perché non possiamo uscire dalla Torre: infatti tutto è in Dio, e tutto dev’essere in questa Sua immagine compiuta e totale. Ma dietro queste riflessioni, in una zona deserta dell’anima, si gonfia il solito angoscioso interrogativo: gli antichi Maestri, quei fervidi demiurghi cui noi attribuiamo la sapiente costruzione di questo incommensurabile edificio, sono davvero esistiti? Certo, se noi potessimo convincerci dell’esistenza della Torre avremmo un argomento abbastanza serio per sostenere l’esistenza dei Maestri. Ma tutto questo intrico poderoso di guglie, scale e torrioni non è forse un sogno malato della follia, o uno struggente desiderio del cuore?
Sotto di me il vento straccia la nebbia che impallidisce e per gli squarci cominciano a comparire brandelli verdastri della grande pianura. Chi abita laggiù? Come vedono quegli sconosciuti e felici mortali la nostra Torre gigantesca, quali miti si sono costruiti per spiegarla? Ma la vedono davvero, oppure al loro sereno orizzonte sorgono solo le frastagliate montagne che a volte splendono come promesse lontane?
Da poco un altro peso si è aggiunto al carico che già ci opprimeva il cuore e un’altra incertezza ci tormenta. Uno dei Sapienti più anziani, che da alcuni anni andava fortificando nel silenzio le sue teorie, ha reso pubblica una delirante obiezione. Dice il Sapiente: «L’unicità è attributo incontrovertibile di Dio, ma trasferendolo alla Torre non si rischia di attribuirle un carattere troppo divino?» Alcuni dunque, per sfuggire alla demente conclusione che la Torre sia Dio – in una delle Sue infinite e ingiustificabili incarnazioni – hanno cominciato a sostenere che, oltre la cerchia scintillante dei monti che il vento a volte ci fa apparire, ci siano altre Torri, simili (o identiche) alla nostra, e anzi che il loro numero sia infinito, in una vertiginosa fuga in tutte le direzioni verso orizzonti sempre più lontani. Ma quando soffia il vento di ponente invano aguzziamo gli occhi dalle finestre a strombo, dai balconi, dalle garitte sospese per scorgere le rosee cime delle altre Torri oltre le nevi dei monti.
Il mio cuore è turbato. A volte in segreto mi auguro – con un’audacia che mi fa fremere – che uno dei terremoti che scuotono le strutture senza tempo della Torre la faccia rovinare (e la sua fine sarebbe forse una prova della sua esistenza). Allora qualche sopravvissuto, uscito infine sulla pianura, potrebbe intraprendere il viaggio sognato verso una delle altre Torri. Quali edifici inaccessibili e lucenti vedrebbero i suoi occhi laggiù, oltre le montagne? Chi l’accoglierebbe, dopo l’estenuante cammino, dall’alto dei muraglioni levigati dal vento, quali sguardi in vigile attesa si poserebbero su di lui dalle feritoie? Con quale brivido l’audace pellegrino riconoscerebbe il proprio viso, fra i tanti che lo fisserebbero, pallidi e intenti?