Il jihad di Gheddafi contro la Svizzera è una minaccia da prendere seriamente

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Il jihad di Gheddafi contro la Svizzera è una minaccia da prendere seriamente

24 Aprile 2010

Nei conflitti internazionali la Svizzera si è sempre mantenuta neutrale, ma negli ultimi due anni sembra essere coinvolta (suo malgrado) in quella che il dittatore libico, Muammar Gheddafi, ha definito una “guerra santa” contro Berna. Le tensioni fra i due Paesi erano cominciate già nel luglio del 2008, quando Hannibal Gheddafi, uno dei figli del leader libico, era stato arrestato insieme alla moglie Aline con l’accusa di aver maltrattato una coppia di domestici in un lussuoso hotel di Ginevra. Il giovane Gheddafi era stato rilasciato soltanto due giorni dopo, sotto il pagamento di una cauzione di 500 mila dollari e con l’obbligo di lasciare immediatamente la Svizzera. Per ritorsione, la Libia aveva fermato due uomini d’affari svizzeri, trattenuti quasi due anni a Tripoli, ufficialmente per infrazione alla legge sul soggiorno. Uno dei due è rientrato il mese scorso a Berna, mentre l’altro è ancora in carcere. Tripoli aveva quindi interrotto i rapporti diplomatici ed economici tra i due Paesi, annullando tutti i visti ai cittadini elvetici, chiudendo le multinazionali svizzere sul proprio territorio e riducendo il numero dei voli diretti a Berna. E per mesi l’ambasciata svizzera in Libia è rimasta quasi deserta, dopo che l’ex ambasciatore Daniel von Muralt ha deciso di ritirarsi prematuramente dall’incarico, in piena crisi diplomatica.

Un anno dopo, le minacce di Muammar Gheddafi contro la Svizzera sono diventate una concreta conferma. Nel 2009 la Libia ha ritirato dai conti della Confederazione oltre cinque miliardi di dollari, secondo la pubblicazione annuale della Banca nazionale elvetica. Se prima di questo ennesimo incidente, Tripoli era il principale partner africano per la Svizzera, soltanto in un anno l’export elvetico è diminuito in Libia di oltre il 70 per cento. L’ira di Gheddafi non si è placata neppure dopo la visita del presidente svizzero, Hans-Rudolf Merz, recatosi di persona a Tripoli per riavvicinare i due Paesi. Al vertice del G8, che si è tenuto all’Aquila lo scorso giugno, il leader libico ha definito la Svizzera “una mafia mondiale e non uno Stato”, accusandola di finanziare il terrorismo internazionale. Mentre qualche mese dopo, la Libia ha presentato istanza affinché l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che si sarebbe riunita il 15 settembre 2009, “discutesse anche lo smembramento del territorio elvetico”, come affermò allora alla tv la parlamentare svizzera e vicepresidente della commissione Esteri, Christa Markwalder. Il Ticino all’Italia, i cantoni romandi e francofoni alla Francia e quelli della Svizzera tedesca alla Germania: così il colonnello Gheddafi avrebbe voluto smembrare la Confederazione elvetica.

Se il portavoce dell’Onu, Farhan Haq, ha rassicurato il governo elvetico e la comunità internazionale, affermando che la proposta della Libia è stata rifiutata perché contraria alla carta delle Nazioni Unite, Tripoli rappresenta comunque una minaccia per la Svizzera e probabilmente anche per la comunità internazionale. Basti pensare al grande colpo messo a segno lo scorso giugno, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha eletto il libico Ali Treki presidente della 64ma sessione che sarebbe iniziata a settembre. Treki è stato ministro degli Esteri tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando gli uomini protetti da Gheddafi facevano saltare in aria aerei, aeroporti, sinagoghe e discoteche. E sulla poltrona occupata dal suo fedelissimo, il leader libico, dopo aver visitato il palazzo di Vetro, ha scritto in caratteri arabi e inglesi: “Noi siamo qui, Muammar Gheddafi”.

Il braccio di ferro fra Tripoli e la Svizzera ha continuato ad inasprirsi nei mesi successivi. Lo scorso febbraio, infatti, Berna ha stilato la così detta black list con i nomi di 188 cittadini libici banditi dalla Confederazione elvetica, fra cui lo stesso colonnello Gheddafi e sua figlia Aisha, il primo ministro Al Baghdadi, il ministro degli Esteri Moussa Koussa, l’attuale presidente dell’Assemblea Onu Ali Treki, altri ministri e dirigenti industriali. Per reazione, la Libia ha sospeso la concessione (revocata soltanto qualche giorno fa) di nuovi visti d’ingresso ai cittadini dei Paesi dell’aerea Schengen, nonché la validità dei visti già rilasciati a tutti gli europei, esclusi i britannici. “Misure reciproche” secondo il quotidiano libico Oea, legato al figlio di Gheddafi, ma che Bruxelles non ha esitato a definire “unilaterali e sproporzionate” in una nota del commissario agli Affari interni, Cecilia Malmstrom.

Infine, Gheddafi ha approfittato del referendum che in Svizzera ha sancita il divieto di costruire nuovi minareti per gettate ulteriore benzina sul fuoco. Lo scorso 25 febbraio si è infatti unito al noto sceicco Yusuf al-Qaradawi, leader spirituale dei Fratelli musulmani egiziani, che già aveva fatto parlare di sé nella vicenda delle vignette danesi, lanciando il jihad, la guerra santa musulmana, contro il nemico sionista, l’aggressore esterno, e la Svizzera.

Queste le sue parole, pronunciate nella città libica di Bengasi:

“La Svizzera è un paese infedele e peccatore, che distrugge le moschee. Il jihad con tutti i mezzi possibili dovrebbe essere dichiarato contro la Svizzera. Hanno dipinto il Profeta Maometto nei loro giornali nella più abominevole delle maniere. Boicottate la Svizzera, i suoi prodotti, i suoi voli aerei, le sue navi e le sue ambasciate. Boicottate questa comunità peccatrice e infedele, che attacca le moschee di Allah. Ogni musulmano ovunque nel mondo che fa affari con la Svizzera è un infedele contro l’Islam, Maometto, Allah e il Corano”.

Eppure, di fronte a ciò la comunità internazionale, Occidente in testa, è rimasta del tutto inerte. Basti pensare che la reazione più netta è stata quella delle Nazoni Unite, dal cui quartier generale di Ginevra hanno parlato di dichiarazioni “inammissibili”. L’Unione Europea (UE) si è invece limitata a definirle semplicemente “spiacevoli”, mentre al vertice di fine marzo della Lega Araba, organizzato proprio in Libia, il ministro degli Esteri spagnolo e presidente di turno dell’UE, Miguel Angel Moratinos, ha espresso tutto il suo disappunto per la lista nera della Svizzera, dimenticandosi dei due ostaggi elvetici prigionieri da oltre due anni a Tripoli. L’America, a sua volta, nonostante i trascorsi, sembra ancora considerare la politica di Gheddafi come uno scherzo. Il portavoce del dipartimento di Stato, P.J. Crowley, commentando la proposta libica di smembrare la Svizzera e la lectio magistralis di Gheddafi sulla geografia, ha preferito non esporsi e sdrammatizzare: “[Ho sentito] un mucchio di parole, non necessariamente di buon senso”.  Probabilmente Crowley non si aspettava la reazione del leader libico, che in reazione alle sue dichiarazioni tanto offensive nei confronti di Tripoli ha minacciato di estendere il jihad anche all’America e di colpire i rapporti d’affari con le compagnie petrolifere americane che operano nel suo Paese. Come risultato, Crowley ha dovuto scusarsi per i commenti troppo ironici e Washington ha inviato il suo ennesimo emissario in Libia per discutere della questione.

Molti esperti si rifiutano di prendere in seria considerazione il pericolo che Tripoli rappresenta sulla scena internazionale. Sbagliando, molto probabilmente. Secondo il francese e studioso di Islam, Malek Chabel, gli ultimi fatti non possono essere sottovalutati. Oltre alle ripetute accuse di razzismo, sempre supportate dalla Lega Araba, Tripoli ha rilasciato, lo scorso febbraio, più di 200 membri del Gruppo combattente islamico libico, fedelissimo di al Qaida, che non ha mai nascosto di voler instaurare un regime islamico nel Paese. E non è assurdo immaginare che l’esperienza di questi terroristi, incarcerati al termine di processi iniqui e sommari, possa essere utilizzata all’estero, magari proprio nel jihad contro la Svizzera. Anche per questo, come spiega Chabel, l’Occidente sarebbe “irresponsabile” se dovesse continuare ad ignorare le minacce di Gheddafi.