Il jihadismo è ancora forte in Europa: l’attentato di Tolosa docet
22 Marzo 2012
Il fatto di sangue di Tolosa segue di pochi giorni il fallito attentato alla Sinagoga di via Guastalla a Milano. Chi stava pianificando l’attentato in Italia era un giovane 20enne marocchino, considerato “integrato” nella società italiana nella provincia di Brescia. E il marocchino in questione aveva complici, in tutta Europa. Il primo pensiero, dunque, è andato alle cellule del terrorismo jihadista disseminate nel vecchio Continente.
Il caso di Tolosa la cui strage al momento pare debba risalire alla mente esaltata di un certo Mohammed Merah, soldato francese di ritorno dall’Afghanistan dove potrebbe essere entrato in contatto con gli attivisti di al-Qaeda.
Ho la sensazione che nella adolescenza sia stato indottrinato, come quasi tutti i suoi compagni in Francia, vediamo cosa uscirà fuori dalle indagini che la sicurezza francese sta rovistando sul suo passato. Insomma, un convertito all’islam fondamentalista, che avrebbe ritrovato le sue radici durante una missione militare.
Qualche anno addietro, precisamente ai primi di febbraio 2007, uno dei tanti monitoraggi dei Servizi di Informazione della Direzione Centrale della polizia francese (DCRG) effettuato su 1610 convertiti all’islam, riportato da Piotr Smolar su ‘Le Monde’, rivelava che dopo gli attentati dell’11 Settembre il passaggio alla nuova fede ha subìto una vertiginosa impennata grazie ad un frenetico risveglio del proselitismo.
La notizia più raccapricciante è che gran parte di questi nuovi adepti sono andati ad occupare posti di lavoro in settori altamente sensibili. Così, mentre alcuni Paesi di provenienza si ‘aprono’ alla ‘democrazia’, il nostro Continente si appresta a diventare la palestra del jihad islamico. Lo stesso fenomeno trova riscontro anche in Inghilterra (quando verrà monitorato in Italia?).
E’ indubbio che la fame di religiosità, come riconosce il Papa Benedetto XVI, segna il fallimento delle politiche nazionali degli Stati. Però il fascino che l’islam esercita sui figli e sui nipoti degli immigrati musulmani, testimonia la sconfitta di un modello multiculturale alimentato da una sinistra post-comunista e progressista rea di aver forzato ideologicamente la realtà.
L’islam, in un mondo globalizzato, privo di modelli culturali alternativi, tende ad appropriarsi di questa ideologia che si pensava definitivamente scomparsa con la fine della guerra fredda, ma che è riemersa prepotentemente alla fine degli anni Sessanta. L’Occidente affascina perché è qui che si può ottenere il pieno godimento dei diritti umani. Tuttavia questa attrazione, che porta allo sradicamento delle proprie origini, se non è supportata da politiche più severe nei confronti dell’integrazione «facile», spinge all’abbraccio con queste filosofie di vita nichiliste.
Modelli criticati da Hannah Arendt e da Alain Finkielkraut, sempre più contigui a certe illusioni che Karl Bracher definisce totalitarie di sinistra e di destra, ai quali fa eco il filosofo di sinistra doc, Andrè Glucksmann, il quale nella campagna presidenziale si schierò al fianco di Nicolas Sarkozy e che accusa i loro fautori di essere “narcisisti” perché “… si credono di essere moralmente infallibili e mentalmente intoccabili”.
Ma veniamo al reclutamento. Di solito il primo abboccamento e la successiva “conversione-alla-nuova-fede-ortodossa-islamica” avviene in carcere, dove questi piccoli criminali di reati comuni disoccupati o politicizzati provenienti dalle banlieue (come quelle di Toulouse) si associano ai più scaltri, magari più istruiti, per ottenere dei privilegi, come ad esempio l’allestimento di una sala di preghiera, la richiesta di pasti halal o altre facilitazioni che in Francia vengono concesse solo ai musulmani. In quell’ambito peraltro non vengono esclusi contatti strategici con il terrorismo nostrano.
Una volta in libertà, una parte di questi convertiti vengono integrati nelle strutture di sostegno logistico islamico o avviati alla vigilanza in zone aeroportuali o nei centralini telefonici, o emigrano verso i paesi “caldi” come l’Afghanistan). Altri trovano lavoro in punti vendita halal (carne permessa e macellata secondo le linee guida indicate nella Sunnah), il cui commercio “permette spesso di ripulire il denaro sporco”, come la mafia utilizza le catene di pizzerie. Altri ancora vengono assunti in una delle tante piccole editorie condotte dagli stessi musulmani.
Gran parte delle “prede” francesi che si inchinano davanti alle lusinghe di questi «benefattori», riferisce l’inchiesta, provengono dai suburbi dove il più delle volte vivono a contatto con le comunità delle ex colonie di magrebini, che, col pretesto dell’offerta di un guadagno sicuro, abboccano. Provengono cioè da quella fascia mediterranea dove è più spiccata la tecnica della dissimulazione, ossia la capacità di camuffare le proprie intenzioni presentandosi come persona onesta in grado di venirti incontro.
Questo atteggiamento è tipico del movimento “salafita” (la cui corrispondenza in occidente potrebbe rintracciarsi in un evangelismo spinto di matrice atea) che, per un emigrante di seconda o terza generazione non viene percepito come francese dai francesi, ma nemmeno come arabo dagli arabi, gli fornisce una nuova identità decontestualizzata: un’identità particolarmente adatta per chi non riesce più a riconoscersi in nessuna patria e in nessuna tradizione. Come sostiene il professor D’Atri, si ritrovano in una specie di “patria ideale senza confini e senza tempo”: sostanzialmente un’identità purificata dalle influenze provenienti dal mondo occidentale Cristiano.
Senza accorgersene questi giovani vanno a rinfoltire il movimento dell’internazionalismo integralista, quello predicato dai fratelli Musulmani. Insomma, un coacervo di devianza e di odio sociale che sfocia ineluttabilmente nel terrorismo e nell’odio verso tutto e tutti. Tuttavia la sostanza non cambia se pensiamo che quando finirà quella maledetta guerra afghana costoro torneranno tra noi in Occidente. La rappresentazione del fenomeno sociologico studiato in Francia testimonia la sconfitta morale di una certa sinistra presente negli organismi che contano, proni alle mistificazioni di questi nuovi farisei che stanno gestendo la complessa problematica dell’immigrazione europea.
La comunità internazionale, se vuole resistere a queste farneticanti ideologie, dovrebbe a mio avviso, puntare ad una strategia che coinvolga a pieno titolo i musulmani modernisti con un adeguato programma, ma che invece pare stia riuscendo ai fondamentalisti islamici. La strategia vincente, in prima battuta, poterebbe consistere in un controllo maggiore sul territorio, più che di natura miliare o di natura politica. Quella militare, chiariscono i maggiori osservatori come Magdi Cristiano Allam e Daniel Pipes, è una concezione desueta della sicurezza, perché nell’era del terrorismo islamico globalizzato la vera arma non sono le bombe ma “il lavaggio del cervello che trasforma le persone in robot della morte”.
Così, nella precarietà sociale delle immigrazioni successive, l’islam radicale attinge il suo alimento per rafforzarsi e destabilizzare le nostre istituzioni. Hanno ragione gli intellettuali d’oltralpe alla Glucksmann ad ammonirci che fin quando non saremo in grado di sradicare nel nostro Continente «il mito dell’edonismo libertario» che sfocia nell’apologia del nomadismo, “plasmando la visione della politica e della storia”, l’Occidente sarà condannato a subire la sharia (e legge islamica).