Il Kenya chiude la crisi, ma la democrazia è ancora lontana
14 Aprile 2008
di Anna Bono
Si è ufficialmente
conclusa in Kenya la crisi apertasi all’indomani delle elezioni generali di
fine anno e che per oltre tre mesi ha bloccato la vita politica e gran parte
delle attività economiche, provocando inoltre circa 1.500 vittime e 600.000
sfollati e profughi.
Domenica 13 aprile Mwai
Kibaki, presidente rieletto e capo del Partito di unità nazionale, il partito
di governo che però ha perso la maggioranza parlamentare, ha annunciato il varo
del nuovo esecutivo presieduto da Raila Odinga, leader del Movimento
democratico arancio, il principale partito dell’opposizione ora detentore della
maggioranza relativa nell’assemblea legislativa. Già a marzo i due leader
avevano promesso di costituire un governo di unità nazionale. Poi però ci sono
volute settimane, come era prevedibile, perché si accordassero sulla
spartizione delle cariche a tutti i livelli, a partire dall’attribuzione dei
ministeri più importanti che entrambi avrebbero voluto controllare: come, ad
esempio, quello delle Finanze, quello degli Affari Esteri e quello delle
Autorità locali, quest’ultimo particolarmente ambito perché consente la
“gestione” dei processi elettorali.
Nel frattempo la
tensione era salita di nuovo. A Kibera, una bidonville della capitale Nairobi,
e a Kisumu, città sulle rive del lago Vittoria, entrambe roccaforti di Odinga,
si sono verificati disordini, atti vandalici e manifestazioni di protesta
soprattutto dopo che quest’ultimo, alcuni giorni fa, ha lasciato il tavolo
delle trattative, insoddisfatto delle concessioni di Kibaki, e dopo che il
Partito di unità nazionale si è detto pronto a sciogliere le camere e tornare
al voto nel caso in cui lo stallo non venisse superato in tempi brevi.
Uno degli aspetti più
sconcertanti, per chi ha seguito da vicino gli avvenimenti delle scorse
settimane, è la rassegnata e per niente entusiasta convinzione di molti kenyani
secondo i quali in qualche modo il presidente, riconfermato grazie a brogli
manifesti, e il suo avversario, ritenuto il vero vincitore del confronto
elettorale, avrebbero trovato comunque un accordo. La pace è sempre meglio
della guerra, di questo non dubita nessuno, ma il fatto è che ormai in Kenya,
dopo oltre quarant’anni di indipendenza trascorsi senza grossi contrasti al di
là dell’endemica conflittualità etnica talvolta esasperata da fattori politici
ed economici come nel caso dei recenti scontri post elettorali, pochi si
illudono che la pace porti sviluppo e sicurezza se chi guida il paese mira
soltanto al proprio tornaconto e non si cura del benessere collettivo.
Sottovoce questi cittadini disincantati hanno ribattezzato la “grande
coalizione” annunciata da Kibaki e Odinga un “matrimonio forzato tra iene e
sciacalli” e i più pessimisti ritengono che durerà al massimo sei mesi, dopo di
che “iene” e “sciacalli” si azzanneranno di nuovo.
Non hanno tutti i torti.
Non convince per prima cosa la consistenza del governo che, a meno di virtuosi,
ma del tutto improbabili ripensamenti dell’ultimo minuto, consisterà di ben 40
ministeri, 20 affidati al partito di governo e 20 all’opposizione o, per meglio
dire, all’ex-opposizione perché di fatto, nel nuovo assetto, il Kenya diventa
uno stato privo di opposizione politica. Grazie ai due emendamenti
costituzionali approvati all’unanimità dal parlamento il 18 marzo scorso, l’esecutivo,
finora guidato dal capo di stato, sarà per la prima volta affidato, come si è
detto, a un primo ministro che sarà affiancato da due vice primi ministri –
cariche anch’esse non previste dalla costituzione – uno per il partito di
Kibaki e uno per quello di Odinga. Quest’ultimo non si è però limitato a chiedere il premierato, ma ha
mercanteggiato migliaia di cariche in cambio della rinuncia a rivendicare la
vittoria: nel dettaglio, oltre a una vicepresidenza, ha preteso 20 direttori
generali, 36 sottosegretari, 22 ambasciatori, cinque prefetti, cinque capi
parastatali, 94 commissari distrettuali e 1.000 posti nelle amministrazioni
locali e nei livelli medi della burocrazia statale.
Se l’accordo tra i contendenti ora
è stato raggiunto (e a quanto pare Kibaki è riuscito a conservare i posti
chiave dell’apparato statale), non per questo è finita la lotta per il potere.
All’interno di ogni schieramento si apre ora lo scontro per decidere chi
occuperà le posizioni politiche e amministrative conquistate.