Il liberalismo può avere un futuro nel futuro dell’Italia?

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Il liberalismo può avere un futuro nel futuro dell’Italia?

20 Gennaio 2008

Si sente spesso dire che il liberalismo, che da circa un ventennio ha conosciuto una nuova e duratura fortuna in tutto il mondo, non ha e non può avere salde radici in Italia. Nel nostro paese il liberalismo sarebbe destinato a restare un prodotto d’importazione una moda passeggera, se non un’ulteriore manifestazione di conformismo intellettuale o di goffa esterofilia. I sostenitori di questa vulgata si appellano sostanzialmente a due ordini di ragioni. Dal punto di vista intellettuale, in Italia sarebbero prevalenti culture di segno diverso, lontane dalle matrici originarie del liberalismo. Da un punto di vista sociale, poi, l’Italia sarebbe un paese strutturalmente corporativo, nel quale non potrebbe affermarsi un individualismo responsabile, ma solo un confuso ribellismo anarcoide. Converrà riesaminare, sia pure per sommi capi queste affermazioni per cercare di capire se non si tratta di semplificazioni grossolane.

Anzitutto conviene riportarsi a una realtà storica che spesso viene trascurata. Il liberalismo ha una sua tradizione italiana che risale alle vicende che portarono all’unificazione della penisola. Il Risorgimento, infatti, vede andare di conserva la rivendicazione dell’indipendenza nazionale con quella della rivendicazione di istituti di libertà e di partecipazione politica. I moti del 1820-21 che del Risorgimento sono una delle prime manifestazioni, si caratterizzano, appunto, per la richiesta di carte costituzionali. In una stagione successiva, il Piemonte acquista l’egemonia sul movimento nazionale proprio perché è l’unico stato italiano che mantiene la costituzione concessa nel 1848. Nel cosiddetto decennio di preparazione la pratica della libertà e del parlamentarismo fanno emergere una leadership in grado di guidare il movimento di unificazione e di svolgere una funzione di orientamento e di guida anche ai fermenti rivoluzionari esterni al circuito costituzionale (da Garibaldi a Mazzini).

Un discorso analogo si può svolgere su di un piano, per così dire, macrostorico. Se si esclude il ventennio fascista, in centoquarantasette anni di vita unitaria l’Italia è stata retto da regimi dove le principali libertà erano largamente assicurate. Certo, la vita politica dell’Italia liberale era spesso angusta, segnata da pratiche trasformiste e da comportamenti clientelari. Analogamente la vita pubblica dell’Italia repubblicana era condizionata dalla guerra fredda e ossificata nel predominio governativo di un unico partito. Tuttavia, in un caso come nell’altro, non solo le garanzie individuali erano largamente rispettate, ma lo spazio per articolare le più varie rivendicazioni sociali e politiche tendeva ad allargarsi e non a restringersi.

Anche sotto il profilo della tradizione di pensiero il liberalismo italiano non manca di figure rappresentative. Se Cavour fu soprattutto un politico, i suoi discorsi e interventi giornalistici ci restituiscono non solo un uomo pubblico ricettivo rispetto alle esperienze di libertà dei principali paesi europei (l’Inghilterra, la Francia della monarchia costituzionale) ma anche un pensatore originale, capace di innestare sul tronco del liberalismo classico suggestioni che gli venivano dalla propria esperienza di imprenditore prima e di uomo politico poi. D’altronde, senza ricorrere a un elenco di scrittori e pubblicisti che in diverse stagioni hanno illustrato e difeso una concezione liberale della vita basterà fare i nomi di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi per ricordare come nel patrimonio intellettuale italiano non mancano figure di spicco della tradizione liberale, capaci di svolgere e arricchire con apporti originali un filone di pensiero per sua intrinseca natura variegato e irriducibile a un’unica matrice.

Per trovare una qualche plausibilità alla lamentazione sulla mancanza di un sentimento liberale in Italia si può più fondatamente porre mente alla radicata diffidenza verso il mercato e la competizione economica. La difesa dei privilegi per quanto piccoli e meschini, il moltiplicarsi delle rendite di posizione, che si esprimono in svariate forme (dal sindacalismo del pubblico impiego, agli ordini professionali), sono indici negativi. Tuttavia, anche in questo caso non si deve pensare a un quadro immutabile, frutto di un retaggio atavico. Se è vero, ad esempio, che sul piano delle liberalizzazioni economiche l’Italia è ancora indietro rispetto ad altri paesi democratici, assumendo una prospettiva di più lungo periodo si può essere meno pessimisti. Basti pensare a quanti passi avanti abbia fatto da noi una cultura dell’impresa e una mentalità orientata all’efficienza e al merito rispetto ad alcuni decenni addietro. Appena trenta o venticinque anni fa l’imprenditoria era ancora identificata tout court con la classe dei padroni. Adesso si comincia a diffondere la consapevolezza che l’iniziativa individuale è un ingrediente indispensabile per accrescere il benessere collettivo. Certo, tali assunti non hanno permeato a sufficienza il tessuto sociale e le politiche pubbliche, ma i miglioramenti ci sono e non si possono negare.

Una conclusione provvisoria s’impone. Anziché lamentarsi che la cultura liberale sia minoritaria in Italia si può, invece, registrare con piacere un diffuso miglioramento della sua percezione. Non bisogna lamentarsi se tutti si dicono liberali, lanciando accuse di trasformismo intellettuale. Semmai occorre operare con maggior vigore per imporre, caso per caso, soluzioni liberali, mostrando che esse sono vantaggiose sul piano dell’interesse generale. In sostanza, la battaglia liberale si gioca e si vince certo sui grandi temi ideali, ma ha bisogno di spirito critico e propositivo anche sulle singole issues che sono o vengono all’ordine del giorno del dibattito politico.