Il libro dell’angelo
27 Febbraio 2011
Venezia, lunedì 7 maggio 1313
Venezia quella mattina si era svegliata bene, senza chiasso e con un sole deciso che illuminava le calli e la laguna, dopo tanta pioggia. Dalla nicchia sopraelevata in cui dormiva, Agostino scrutò la piazzetta di San Marco e vide subito che durante la notte c’era stata l’acqua alta, come lo scirocco della sera prima faceva prevedere. Quel giorno il suo lavoro di pulizia sarebbe stato più faticoso del solito: l’acqua alta lasciava sempre una quantità di sporcizia per le strade, quando si ritirava. Vide subito un mucchio di roba a poche braccia dal mare, verso le colonne di San Marco e San Todaro. Vide assi di legno, festoni di alghe, e qualcosa di indefinito attaccato alle assi.
Calcolò mentalmente la distanza di quelle immondizie dal muro della chiesa, e concluse che non erano di sua pertinenza. L’accordo con i monaci era molto preciso: in cambio di una ciotola di minestra due volte al giorno e del privilegio di dormire dentro una nicchia in cui una volta era stata alloggiata una statua, Agostino ripuliva tutti i giorni il perimetro della basilica di San Marco, fino a una distanza di due braccia dal muro. E quel mucchio di roba si trovava ad almeno sei o sette braccia. Quindi competeva agli spazzini della Serenissima. Si alzò in piedi a fatica, massaggiandosi le reni indolenzite, e si preparò a scendere. Gli piaceva svolgere presto il lavoro e poi riposare, contemplando il suo territorio, l’unico spazio aperto di Venezia tanto grande da meritarsi il nome di piazza. Tutti gli altri si chiamavano campi o campielli, e giustamente, perché spesso dentro ci cresceva l’erba. Mentre la piazza pavimentata era una sola: piazza San Marco, con la piazzetta contigua che arrivava fi no al bordo della laguna. E lui, Agostino, era fiero del nome che gli aveva dato la gente: Agostino di San Marco. Sembrava addirittura un titolo nobiliare.
Raccolse in un angolo della nicchia la paglia su cui aveva dormito, ci stese sopra uno straccio e coprì il tutto con due sassi, in modo che il vento non la disperdesse e i gabbiani non la sporcassero. Poi si calò giù dalla nicchia, a cinque piedi buoni dal suolo, portandosi dietro la sua scopa di saggina. Prima di cominciare, tuttavia, decise di andare a dare un’occhiata da vicino a quei rifiuti. Magari in mezzo al legname e alle alghe c’era qualcosa di valore che avrebbe potuto rivendere. Non l’avrebbe visto nessuno. A quell’ora, a parte lui, erano svegli solo i monaci e i gabbiani. Si avvicinò a passi rapidi, appoggiandosi alla scopa come a un bastone.
In realtà, avrebbe raccontato in seguito, quando il suo nome correva di bocca in bocca e la gente faceva a gara nel pagargli da bere per sentire la sua storia, si era reso conto quasi subito di cosa si trattava, ma l’orrore della scena era così grande che san Marco in persona doveva essere intervenuto a oscurargli il pensiero, per impedire che il suo povero servo impazzisse. Così Agostino aveva avuto l’impressione di comprendere a poco a poco che le assi di legno erano croci, che i festoni di alghe erano attaccati a una grossa gomena attorcigliata intorno al legno, e che i fagotti informi inchiodati alle croci erano corpi umani, piccoli e gonfi d’acqua ma troppo ben proporzionati per appartenere a dei nani. Solo allora, gridando l’allarme nella piazza deserta, Agostino aveva lasciato cadere la scopa ed era corso ad avvisare i preti della basilica: l’acqua alta aveva trascinatoa riva i corpi di tre bambini crocifissi, ciascuno con un buco nel costato come Nostro Signore.
Alfredo Colitto, Il libro dell’angelo, Piemme, Milano 2011