Il lodo Schifani garantisce un rapporto equilibrato tra politica e magistratura

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Il lodo Schifani garantisce un rapporto equilibrato tra politica e magistratura

20 Giugno 2008

La decisione della maggioranza di prevedere meccanismi di garanzia per massime autorità dello Stato non può certo costituire motivo di scandalo. A ben riflettere le ragioni a sostegno della regola della improcedibilità dell’azione penale costituiscono il presupposto giustificativo di discipline costituzionali previste in altri ordinamenti, a protezione dell’indipendenza degli organi di vertice. La Costituzione greca sancisce la regola del “congelamento” dei processi, quale espressa prerogativa del Capo dello Stato; statuisce che “per gli atti che non hanno alcun rapporto con l’esercizio delle funzioni presidenziali, l’incriminazione e sospesa fino alla scadenza del mandato”. Analogamente, la Costituzione portoghese afferma che “per i reati estranei all’esercizio delle sue funzioni il Presidente della Repubblica risponde al termine del suo mandato di fronte ai tribunali comuni”. In Francia, il Conseil Constitutionnel e la Corte di Cassazione  hanno di recente affermato che il Presidente della Repubblica, durante il suo mandato, gode dell’immunità e potrà essere sottoposto all’azione del giudice soltanto alla fine del mandato presidenziale. 

Anche la sentenza della Corte Costituzionale del 2004 sul lodo Maccanico-Schifani costituisce il tentativo d’instaurare un rapporto di “leale collaborazione”  con il potere legislativo,  in un terreno che si colloca nella linea di confine con il diritto politico. La Corte, con una pronuncia equilibrata, ha sapientemente evitato di abbassare il livello del ragionamento giuridico, preoccupandosi di non prestare il fianco ad ogni tipo di strumentalizzazione. Essa ha colto una importante occasione  per riaprire  la partita con il Parlamento: quella decisione ripropone il dibattito sull’immunità, suggerendo al legislatore gli aggiustamenti necessari per la reintroduzione del lodo. Secondo la Consulta, la questione è fondata con riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui accomuna in un’unica disciplina cariche diverse, non soltanto con riferimento alle fonti di investitura, ma anche con riguardo a natura e funzioni. In secondo luogo, perché distingue, con riferimento ai principi fondamentali della giurisdizione, senza plausibile motivo, la posizione dei Presidenti dei due rami del Parlamento, del Consiglio dei Ministri, e della Corte costituzionale da quella degli altri componenti degli organi da loro presieduti. Inoltre, ammonisce la Corte, il carattere automatico e di durata indeterminata della sospensione del processo risulta lesivo dell’art. 24, poiché incide negativamente sul diritto di difesa dell’imputato, il quale si trova di fronte all’alternativa tra “continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione (…) oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole”, rinunciando al godimento del diritto costituzionale di accesso alle cariche politiche. L’istituto della sospensione come previsto dal lodo, fra l’altro, avrebbe menomato sensibilmente il diritto di difesa anche da altra prospettiva, atteso che al principio di effettività dell’esercizio della giurisdizione “non sono indifferenti i tempi del processo”. Infatti, una stasi del processo per un tempo indeterminato contrasta sia con il principio della ragionevole durata, che con il canone dell’efficienza della giurisdizione. 

Peraltro, i giudici della Corte indicano la strada per ridisegnare l’istituto della sospensione dei processi, affermando che il regime delle sospensioni può ben essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze extraprocessuali. Ed anzi, la motivazione si spinge oltre, sottolineando come la coincidenza della condizione di imputato con quella di titolare di una carica di vertice esige la previsione di strumenti normativi idonei ad assicurare “il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche”. 

Emerge immediatamente come il regime delle prerogative non possa condurre alla violazione del principio di eguaglianza, in quanto garantire il sereno svolgimento delle funzioni costituzionali è “interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale”. Vi sarebbe perfetta armonia con la Costituzione di misure normative preordinate ad assicurare la continuità e il regolare svolgimento delle mansioni pubbliche più rilevanti, a prescindere dalle vicende di chi, in un determinato momento ricopre la relativa carica. L’istituto della sospensione dei processi mira, invero, ad assicurare l’autonomia degli organi di vertice, per un corretto svolgimento delle funzioni, senza temere azioni dell’autorità giudiziaria, eventualmente pretestuose ed orientate a condizionare l’attività politica degli stessi. 

Del resto, in un recente passato, anche la magistratura ordinaria ha rintracciato, pur nel silenzio normativo, l’esistenza della regola di improcedibilità nei confronti del Capo dello Stato durante il settennato. In particolare, la Procura della Repubblica di Roma ha inaugurato una prassi giudiziaria in occasione del caso “Scalfaro-Sisde”. In quell’episodio i magistrati competenti ebbero a dichiarare “l’impossibilità, per disposizioni costituzionali, di avviare qualsiasi indagine” nei confronti del Presidente della Repubblica per tutta la durata del suo incarico, sospendendo, per questi motivi, ogni attività istruttoria in merito ad eventuali fattispecie di reato compiute nel periodo in cui lo stesso ricopriva il ruolo di Ministro degli Interni. Ciò allo scopo di evitare che i vertici delle Istituzioni rimangano“in balia di qualsiasi giudice cui passi per la testa di incriminarli”. Invero, tale criterio scaturirebbe dall’esigenza di non esporre le massime cariche dello Stato a vicende di carattere giudiziario che già, per il sol fatto di essere avviate, rischierebbero di pregiudicarne gravemente autorevolezza e prestigio, pericolo che sarebbe tanto più da scongiurare al cospetto dell’eventualità di una definizione del processo che lo vedesse estraneo ad ogni ipotesi di reato.

Ida Nicotra è docente di Diritto Costituzionale all’Università di Catania