Il Manifesto d’ottobre è un vuoto d’idee ma deve far riflettere il Pdl
31 Ottobre 2010
Il “Manifesto di ottobre” redatto da ex-marxisti e neo-futuristi (alcuni probabilmente inconsapevoli di esserlo), come è stato osservato, è un pasticcio indigesto finalizzato, niente di meno, che alla “rinascita della res publica”. Poco importa se il nutrito gruppo di promotori si dimentica di farci sapere in che modo dovrebbe concretizzarsi il vasto programma. Siamo davanti ad un documento politicamente inutilizzabile, infarcito di luoghi comuni, con il quale, oltretutto, non si perviene all’aspirata, ma non dichiarata, “contaminazione” tra famiglie ideologiche, ma soltanto ad un confusionismo strutturato che nasconde un preoccupante vuoto progettuale.
In effetti, la logica che traspare da esso non è sottesa alla costruzione di un soggetto politico, ma alla definizione di un disagio. Potremmo essere anche d’accordo su questo punto, ma a condizione che dall’analisi venga fuori un progetto per superare il disagio stesso, non l’apologia dell’impoliticità che ci sembra abbastanza pronunciata soprattutto quando si afferma che “non c’è politica senza un pensiero che esprima la passione del presente come intelligenza del futuro, che non è solo dopo, ma è anche altro: è sparigliare le carte e le compagnie del gioco per disegnare nuove coordinate dell’impresa comune”. Che vuol dire?
L’insostenibile leggerezza del “manifesto d’ottobre”, mese in cui riescono piuttosto male anche le rivoluzioni, non deve comunque far passare il secondo piano i problemi che affliggono il centrodestra. I neo-destri, in ritardo di trent’anni, che hanno trovato in Fini un punto di riferimento (anche se ci sfugge in base a quale ragionamento: erano gli stessi che lo avversano da giovani, ricambiati con altrettanta antipatia), non sono gli avanguardisti di un movimento innovatore che dovrebbe sconvolgere gli assetti politico-culturali italiani. Ma a loro che cosa si oppone da parte del mondo dal quale sono fuoriusciti?
Se il Pdl, per dirla con brutale franchezza, non riprende un’iniziativa credibile in grado di coinvolgere il suo elettorato, è fatale che l’attrazione verso nuovi lidi di chi è scontento o ritiene di trovare altrove la risposta al suo malessere, è destinata a creare altri problemi. La soluzione, con tutta evidenza, non è la scimmiottatura di un manifesto contrario al fine di contribuire al dispiegamento di ludi cartacei che non portano a nulla, ma di verificare, con coerenza, la compatibilità tra principi e prassi politica in un movimento composito com’è il Pdl.
Insomma, non è con le soluzioni politiciste e neppure con la propaganda spicciola e nemmeno con l’adeguamento degli organigrammi che si risolvono questioni di vitale importanza di fronte alle quali il partito è stato immobile fino a farsi esplodere tra le mani la scissione che lo sta mettendo a dura prova.
In altri termini, è ferma convinzione di chi scrive, ma anche di molti altri, che è necessario farla finita con i cenacoli (altrimenti detti più volgarmente correnti) e riprendere a pensare politicamente innovando una strategia della penetrazione nel corpo sociale con progetti innovativi di ampio respiro, quali la riforma delle istituzioni, l’accentuazione dell’attenzione verso le nuove povertà, il respiro di una proposta che abbia al centro i giovani e dunque la cultura, la ricerca, il diritto allo studio, la coesione sociale e nazionale Insomma, non si può restare sempre e soltanto sulla difensiva, attendendo il prossimo agguato mediatico-giudiziario, ma rispondere alla crisi, oltre che con una seria rivisitazione dei criteri di selezione della classe dirigente, trasmettendo passione per i valori da rilanciare avendo ben presente che la nostra è una società stanca, ripiegata, rassegnata, dedita ad un edonismo nel quale affoga la propria miseria spirituale e culturale.
Un partito politico che non si occupi di tutto ciò (e di altro ancora) non è un “partito globale”, come dovrebbe aspirare ad esserlo il Pdl, ma un partito politicista che pratica avventurette parlamentari tanto per resistere. Le formule che propone – sempre per essere sincero fino alla brutalità – non scaldano i cuori. C’è bisogno d’altro. E va ritrovato nelle radici stesse di quella rivoluzione italiana che si era manifestata agli inizi degli anni Novanta e che non ha mai spiccato il volo, pur avendo acceso tante speranze.
Diversamente, l’esito non potrà essere che la dissoluzione di un sogno. Accompagnato, lasciatelo dire ad un maldestro piuttosto affranto, dai comportamenti di una compagnia di giro che con il controdestra come struttura politica non c’entra niente. Ma, curiosamente, è poi sempre e comunque quest’area, complessivamente intesa, destinata a doverne pagare le conseguenze. Ci chiediamo inquieti il perché, immaginando comunque che si possa risalire la china.