Il marchio è Al Qaeda ma dietro gli attacchi in Iraq c’è il vecchio Baath

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Il marchio è Al Qaeda ma dietro gli attacchi in Iraq c’è il vecchio Baath

19 Gennaio 2011

Ieri un attacco suicida contro la polizia irachena a Tikrit, nel nord dell’Iraq, ha causato decine di morti e più di 150 feriti, tanti in gravi condizioni. Tikrit era la città natale del defunto ex presidente Saddam Hussein. Fonti della sicurezza irachena puntano il dito contro Al Qaeda ma la situazione in Mesopotamia appare più complessa.

Nel 1918 la diplomatica britannica Gertrude Bell impiegò solo pochi giorni per disegnare l’Iraq sulle carte geografiche unificando tre ex province dell’Impero Ottomano. Ci vorrà molto più tempo per costruire un Paese stabile. Il nuovo governo guidato dallo sciita Nuri al Maliki ha ottenuto la fiducia del parlamento dopo un lungo travaglio.  Gli iracheni hanno aspettato oltre nove mesi per ottenere un nuovo governo, dopo che le elezioni legislative dello scorso marzo non avevano prodotto un chiaro vincitore e mostrato quanto profonde fossero le divisioni del paese su basi etniche e confessionali. Maliki doveva presentare 42 ministri, ma  solo 29 hanno incassato un voto positivo. In particolare restano scoperti i tre ministeri “della sicurezza”: gli interni, la difesa e la sicurezza nazionale.  L’ex premier Iyad Allawi, il cui gruppo laico al Iraqiyah aveva vinto le elezioni, ma non è riuscito a comporre una maggioranza stabile, è divenuto capo di un nuovo organismo, il Consiglio nazionale per le politiche strategiche che dovrebbe presiedere alla politica estera e della sicurezza, ma non è chiaro quanto potere potrà avere. E’ evidente  che il nuovo esecutivo si regge su un fragilissimo equilibrio.

Lo stesso primo ministro ha riconosciuto che il neonato governo “forse non soddisfa le aspirazioni dei cittadini, né i blocchi politici, né la mia ambizione o quella di altri. Ma questo è ciò che abbiamo”. Il nuovo premier deve il suo, per ora traballante, successo alla capacità di tenere insieme il partito degli al Hakim (Il Supremo Consiglio sciita iracheno, Scii),  e le milizie combattenti di Moqtada al Sadr. Proprio il giovane imam ha fatto irruzione sulla scena pochi giorni dopo la fiducia incassata dal nuovo governo minacciando le truppe americane che ancora restano nelle terre mesopotamiche. Il messaggio che Sadr lancia è chiaro. Con il suo parlare bellicoso vuole tornare a giocare un ruolo da protagonista nel nuovo scenario politico. Le sue milizie, l’esercito del Mahdi, sono un deterrente potentissimo che nessun altro attore può giocare. Dietro la sagoma di Sadr si scorge l’ingombrante Iran (l’imam si è rifugiato nella città santa di Qom negli ultimi quattro anni). Maliki aveva tentato in extremis di accreditarsi come esclusivo “rappresentante” di Teheran con una visita all’ayatollah Ali Khomenei. Ma non ha ottenuto grandi risultati. Anzi così facendo ha perso credibilità come soggetto politico autonomo dall’Iran.  
Mentre l’esercito americano si ritirava dal “paese dei due fiumi” a Washington sapevano che la guerra non sarebbe finita perché l’Iraq  è vulnerabile al gioco delle influenze straniere. Il Paese potrebbe trasformarsi nel terreno di scontro tra il khomeinismo iraniano e il wahhabismo saudita.

Le mire egemoniche di questi ingombranti vicini si sovrappongono alle divisioni settarie ed etniche dando forma ad un mosaico con tessere difficili da far combaciare.  Il Kurdistan è ormai una regione autonoma che vorrebbe annettersi Kirkuk, la  contesa città del petrolio gli sciiti occupano la maggioranza dei posti di comando e dominano le provincie orientali con le principali riserve di greggio. Ma non sembrano accontentarsi e sono pronti a farsi manovrare da al Sadr, braccio operativo dei pasdaran. I sunniti, che controllavano lo stato ai tempi di Saddam Hussein, non si rassegnano a dover lasciare il potere dopo secoli di predominio. Ed è proprio per questo motivo che il terrorismo può tornare a mietere vittime. Si è esaurito l’effetto Petraeus. Il generale americano aveva coinvolto le tribù sunnite nella gestione del potere attraverso i Comitati dei risvegli che collaboravano con gli americani. Adesso che la rivincita degli sciiti si sta compiendo potrebbe scatenarsi nuovamente la violenza di Al Qaeda che è ancora presente ma è pure un marchio di comodo sugli attentati perché la rete è in gran parte organizzata dai residui del partito Baath. Inoltre, l’Arabia Saudita preoccupata dalla “rinascita” sciita, potrebbe incoraggiare la ribellione degli ex baatisti pacifici ormai estromessi dal potere perché confluiti nel partito dello sconfitto Allawi. L’Iraq, così, corre il rischio di una guerra civile vera e propria.  

E’ chiaro che Iraq è diventato il palcoscenico, assieme al Libano, dove si contrappongono gli obiettivi strategici delle due potenze regionali Iran e Arabia Saudita. La possibilità di influenzare le sue dinamiche politiche interne è  d’importanza fondamentale per l’egemonia in Medioriente. Il ritiro americano ha messo in allarme i due Stati, che si danno da fare guadagnare una posizione di supremazia per sfruttare la fragilità istituzionale e aggiudicarsi una notevole influenza sul nuovo assetto decisionale. Per Teheran un governo iracheno controllato dalla maggioranza sciita significa dirigere la politica irachena, con un successivo consolidamento della sua influenza in tutta la regione, in linea con la sua politica espansionistica nel Golfo. Non c’era certo bisogno delle rivelazioni di Wikileaks per sapere  che l’Arabia Saudita è terrorizzata dall’avanzata persiana e che per tale ragione spingeva per la formazione di un governo di Baghdad che comprendesse al suo interno la componente sunnita.

Secondo Rihad l’Iraq è solo l’avamposto iraniano per lanciarsi alla conquista delle petromonarchie del Golfo. I prossimi a cadere sotto l’influenza del regime dei mullah potrebbero essere il Qatar e il Bahrein. A quel punto i Saud vedrebbero realizzarsi l’incubo dell’accerchiamento iraniano. Sullo scacchiere iracheno giocano anche due altre potenze regionali come la Turchia e la Siria.  Ankara controlla i due lati del Kurdistan e ha trovato un accordo con il governo di Baghdad per controllare la frontiera. Damasco, pur essendo fedelissimo alleato di Teheran, sta cercando di costruirsi una politica estera autonoma dall’Iran e lo fa cercando di esercitare una certa influenza in Iraq. Quanto detto fin qui dimostra come siano tante le cose cambiate dai tempi di Gertrude Bell ma una è rimasta sempre la stessa: chi controlla l’Iraq può influenzare tutto il Medioriente.