Il mare, la follia e la politica nel centenario di Mario Tobino
21 Febbraio 2010
La pazzia è una malattia? O è soltanto un’altra realtà “dove le emozioni sono più sincere e non meno vive”? Mario Tobino non aveva una risposta certa: per lui la follia era prima di tutto “una segreta legge del Signore”, con la quale – da medico e scrittore – ha convissuto per quarant’anni nel manicomio di Maggiano. Per celebrare il centenario della nascita dell’autore toscano abbiamo intervistato la professoressa Laura Barile, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Siena e collaboratrice della Fondazione Mario Tobino, una struttura molto impegnata nella riscoperta di un grande dimenticato del Novecento italiano.
Professoressa, nel 2010 si celebra il centenario della nascita di Tobino. La fondazione a lui dedicata ha in serbo molte iniziative: ci può raccontare, in breve, come verrà ricordato il medico e scrittore viareggino?
La Fondazione Tobino ha in programma varie manifestazioni. Alcuni premi: il Viareggio-Tobino, conferito in gennaio a Sergio Zavoli, il Tobino per le Università e il Tobino per le scuole medie. Un Catalogo degli strumenti medici e scientifici dell’Ex Ospedale Psichiatrico Provinciale di Fregionaia Lucca, presentato lo scorso 12 febbraio. Un volume di Bibliografia testuale e critica 1910-1991 a cura di Paola Italia e altri, che propone il recupero di alcuni testi dello scrittore ampliati di inediti (tra cui la raccolta di viaggi Passione per l’Italia del 1958). E vorrei a questo proposito ricordare come il Meridiano dedicato a Tobino nel 2007 sia stato splendidamente accresciuto dal team di giovani studiosi che fa capo a Paola Italia di molte e bellissime pagine del diario, di carte e abbozzi…
Un calendario molto fitto, non c’è che dire. Stiamo parlando di autori “dimenticati” del Novecento italiano, ma sembra proprio che le occasioni per riscoprire Tobino non mancheranno…
Sì, e non è tutto. È previsto anche un Seminario di Psicopatologia in aprile su La rappresentazione delle ‘nevrosi’ in letteratura, coordinato da Franco Bellato. La presentazione al salone del libro di Torino degli Atti del convegno “Il turbamento e la scrittura”, a cura di Giulio Ferroni. Una tavola rotonda in giugno su Questioni e storia dell’organizzazione e assistenza sanitaria. E ancora, in autunno, manifestazioni nelle scuole, un convegno su Il mondo di Tobino: il medico e le arti in Toscana e in Italia e un primo volume del progetto di ricerca sul Manicomio di Fregionaia e l’assistenza sociale e sanitaria nel territorio lucchese tra Sette e Novecento.
Venendo al nostro autore, chi lo conosce pensa soprattutto alla sua attività in qualità di psichiatra e di narratore. Tobino, però, ha scritto anche poesie: penso in particolare alle tre raccolte che ha pubblicato tra il 1934 e il 1942. Che idea si è fatta del Tobino poeta?
Le poesie di Tobino sono effettivamente rimaste relegate in un margine d’ombra. La verità è che Tobino nasce poeta, anche cronologicamente parlando: ma non solo. Infatti direi che la sua prosa migliore, il suo stesso stile felicemente espressionista nei romanzi e nei racconti è fortemente lirico, possiede la libertà della parola della poesia e sommuove le sue pagine con ritmi e metafore pieni di colore e di emozione: è una prosa che viene direttamente, per così dire, dalla poesia. La sua poesia vera e propria appare, al contrario, sorprendentemente tradizionale e immediata: per un senso di onestà intellettuale, credo, che opponeva Tobino al gruppo fiorentino degli ermetici, e per la sua fiera opposizione all’obscurisme. La poesia è per Tobino, più della prosa, un mezzo di comunicazione diretta e di indagine della realtà: i suoi versi, come scrive nel Diario, costituiscono la sua “immediatezza”, le sue “istantanee”.
C’è stata un’evoluzione stilistica nei suoi versi?
No, le sue scelte stilistiche sono rimaste sostanzialmente immutate: da Poesie del 1934 a Amicizia del 1939 a Veleno e amore del 1942 (dove dopo l’esperienza della guerra di Libia la Storia entra nei suoi versi), fino a ‘44-‘48, dedicato al periodo clandestino e alla delusione per una vittoria che fu anche una sconfitta, priva del riscatto per i morti in guerra. Seguirono due antologie, nel 1955 e nel 1974 (L’Asso di picche), che si pongono come riassuntive di un’autobiografia. Si potrebbe oggi pensare a una ristampa che contenesse anche le poesie non raccolte o inedite, oggetto di studio di testi specialistiche o dottorali: vedi, a mo’ di brevissimo esempio, 1956: “Signore dammi la forza / di finire ‘Il clandestino’, / comporlo / come una madre / che fa la maglia / per il figlio soldato.”
Passando al Tobino narratore, credo che si possano individuare alcuni grandi temi all’interno della sua vasta produzione. Prima di tutto la guerra e la Resistenza, raccontati in Il deserto della Libia e nel romanzo Il clandestino: cosa hanno rappresentato, per lo scrittore, queste esperienze giovanili?
Sono due esperienze fondamentali. Come dice Ingeborg Bachmann, nel ventesimo secolo non si può più dire che l’uomo è nella storia, ma piuttosto è la storia che entra nella vita e nella psiche dell’uomo: è la storia che è nell’uomo. La guerra di Libia ha prodotto quel capolavoro che è Il deserto della Libia, indimenticabile epopea del tenente medico Marcello nelle sabbie desertiche con un esercito impreparato male armato e malvestito e un comandante pazzo Oscar Pilli, che in qualche modo riscatta col suo delirio la follia e l’allucinante monotonia di quei giorni infiniti nelle sabbie, a morire per l’Impero di cartone voluto da Mussolini: ma con le dolcezze improvvise delle notti stellate e delle fanciulle arabe, intraviste nella tenda di un giovane capo di cui il tenente diviene amico, nonché delle parole dei giovani italiani che muoiono sotto le sue mani di chirurgo impotente a salvarli. Si tratta di una serie di accesi capitoletti brevi, limitrofi alla poesia, che compongono un indimenticabile romanzo.
E per quanto riguarda Il clandestino?
Il clandestino è secondo me – e con mia grande meraviglia non lo si trova mai citato fra i libri che raccontano la Resistenza – uno dei più interessanti romanzi che documentano quel periodo, sulla costa e nell’entroterra toscano. Il suo interesse, al di là della maestria della narrazione, sta anche nel documentare la varietà di posizioni politiche di coloro che parteciparono in vario modo alla Resistenza, in un arco che va dai monarchici ai liberali ai comunisti, nonché il loro nesso stretto con la popolazione, la gente comune, che la guerra non la fa ma la subisce. È infatti la storia di una comunità, quella che racconta Tobino, la comunità di Viareggio – così come aveva raccontato la comunità dei soldati nel Deserto della Libia e come racconterà la comunità dei matti di Maggiano (questa, di Tobino scrittore della comunità, la bella intuizione critica di Giacomo Magrini). Il clandestino è la narrazione della comunità partigiana dell’amato territorio viareggino, con tutta la sua varietà di posizioni e di partecipazione.
Altri testi di Tobino sono invece più intimi… Penso in particolare a La brace dei Biassoli, incentrato sulla figura materna: che rapporto aveva Tobino con la madre? E qual è stato il suo rapporto con la Versilia, terra d’origine?
La brace dei Biassoli è un dolcissimo e visionario requiem per la morte della madre, che lo amò potentemente ricambiata. È visionario perché questa morte fa rivivere nelle sue pagine altri morti giovani della famiglia materna, in particolare un fratello, e fa rivivere i bellissimi paesi della costa ligure limitrofa a quella toscana (la madre era di Vezzano Ligure). Qui lo stile piano, quasi sussurrato a se stesso in una veglia funebre sulla costa “a strapiombo sulla scogliera” dove fioriscono i limoni e dove la mimosa esplode in gennaio, ci porta, nel vento delle parole, di fronte al mare, al golfo di La Spezia, alla madre fanciulla e alla sua morte. Il padre era farmacista a Viareggio (vedi il primo romanzo Il figlio del farmacista): e Viareggio-Medusa, con il Piazzone, e soprattutto il mare e le barche, in una dimensione primordiale, sensuale e mitica al tempo stesso (penso ai conradiani racconti de La gelosia del marinaio, confluiti nel bellissimo L’angelo del Liponard e altri racconti di mare), è la protagonista numero uno dei suoi scritti. Ma su questo tema vorrei ricordare anche un libro di passione storico-geografico-naturale per la Versilia, Sulla spiaggia e di là dal molo, del 1966.
Arriviamo al Tobino medico, alla sua vita spesa nel manicomio di Maggiano. Come ha trasposto la follia in letteratura, a partire dal celebre Le libere donne di Magliano?
La follia, o comunque lo scarto dalla regola, è forse da sempre scontrosa compagna del viareggino Tobino – erede in questo del Moscardino di Pea e della natura anarchica e ribelle della gente di Versilia. E tuttavia fu questo anche il suo destino di uomo e di medico. Le libere donne di Magliano è nato in parte sulla base di una serie di cartelle cliniche che Tobino, che ha voluto sempre abitare accanto ai suoi matti, annotava in solitudine nel suo appartamentino la sera; nonché in una serie di quaderni irreperibili. L’impegno di Tobino è essenzialmente quello di “dire la verità” su queste vicende di follia, vista “appena si affaccia”. Di fronte allo scandalo che suscitò il libro, uscito nel 1953, Tobino annota nel diario: “Non mi sono accorto di dire la verità, da tanto che la dicevo”. Il suo posto è sempre dalla parte dei malati: in questo senso si oppose all’uso degli psicofarmaci senza un valido e costante appoggio psicanalitico – senza il conforto delle parole, nonché alla legge Basaglia senza una previa organizzazione di strutture alternative di sostegno. Eugenio Borgna nel Meridiano avvicina Tobino alla psichiatria ermeneutica e fenomenologica, che vede – come imprescindibile premessa alla cura chimica – l’amore nei confronti del malati e la capacità di riconoscere la grandezza e al tempo stesso la misera della follia: le stimmate della sua radicale dimensione umana.
In un articolo pubblicato su “L’Indice”, lei ha individuato tre grandi passioni per Tobino: il mare, la follia e la politica. A questo proposito, dopo l’esperienza resistenziale, quali sono stati i rapporti dello scrittore con il mondo politico?
Direi che l’antifascismo è il DNA di Tobino: ma dal dopoguerra alla morte il suo impegno non è più politico in senso stretto, bensì medico e letterario. Non mi pare che Tobino avesse rapporti significativi con il mondo politico vero e proprio.
Ringraziandola per il tempo che ci ha dedicato, vorrei chiudere l’intervista con una domanda più personale. Secondo lei, professoressa, Tobino è stato prima di tutto un medico o uno scrittore?
Bella domanda. Dal punto di vista cronologico il Tobino poeta viene prima di tutto, e pur tuttavia è contemporaneo alla iscrizione alla facoltà di medicina a Bologna. Ma, più in profondo, diciamo che la figura del medico scrittore è tra le più interessanti della modernità. La sua scrittura contiene una verità tutta particolare: penso a massimi scrittori come Cecov (vedi lo straordinario La Corsia n.6, e tutti i racconti dal primo all’ultimo) – nonché per esempio a Louis Ferdinand Céline, e al registro stilistico di tutta la sua scrittura. Forse c’è un nesso che lega la conoscenza dei meccanismi fisiologici e psicologici degli uomini a quelli della scrittura, forse il mestiere del medico allarga la conoscenza dell’animo umano e del dolore. O forse la necessità di dire, categoria fondamentale della scrittura, ha in vario modo a che fare con la malattia: quello del medico scrittore è un tema che si potrebbe approfondire, e che ho proposto alla Fondazione Tobino per un eventuale prossimo convegno internazionale.