Il mio lungo viaggio alla ricerca del mondo libero

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Il mio lungo viaggio alla ricerca del mondo libero

18 Agosto 2007

Il film Coming to America (in Italia tradotto come “Il principe cerca moglie”) narra la vicenda del principe Akim nel magnifico, pacifico, esotico regno di Zamunda, in Africa. Il re di Zamunda organizza una suntuosa cerimonia in onore del principe ereditario Akim (meravigliosamente interpretato da Eddie Murphy), alla quale partecipano tutti gli uomini di corte. Seguendo impeccabilmente l’etichetta, e dopo molto spargimento di petali di fiori e balletti scatenati ma dalla perfetta coreografia, ad Akim viene presentata la sua promessa sposa. La futura regina ha le sembianze di Jennifer Lopez e indossa un lungo abito da sera dorato. Ha lunghi capelli che le ricadono in boccoli perfetti sino alla vita, ed il sorriso più luminoso che si possa immaginare -un dettaglio non trascurabile se si deve principalmente passare la propria vita a scoprire di continuo i denti in una dimostrazione di piacere, anche se piacere non si prova.

Ma Akim è stato corrotto dalla modernità, e contrariamente alla tradizione di Zamunda, vuole innamorarsi. Vuole una moglie che gli tenga testa, che abbia delle opinioni, e che lo ami per quello che è, non per la sua posizione. Infrange il protocollo, appartandosi con la futura sposa. Akim a questo punto le chiede dei suoi pensieri, delle sue idee sulla vita, dei suoi passatempi. Ad ogni domanda, la risposta è sempre lo stesso mantra, diligentemente mandato a memoria: “tutto quello che voi desiderate, altezza”. Allora Akim, sempre più frustrato, le domanda di abbaiare come un cane -e la ragazza ubbidisce al comando del principe. Mentre Akim, esasperato, se ne va come una furia, ci domandiamo se la povera giovane verrà perdonata.

Il principe Akim, avendo appena rifiutato la promessa sposa a Zamunda, deve trovarne un’altra. Decide di cercarla in America -nel Queens, ad essere precisi. Akim trova la sua principessa, la figlia di un magnate di “McDowells”.

***

La vita in Somalia non era affatto come nel regno di Zamunda, con la sua brezza fresca ed un sovrano benevolo, dove uomini e anomali interagiscono in perfetta simbiosi. Nel 1969, ventitré giorni prima che io nascessi, la giovane democrazia somala fu rovesciata da un membro dell’esercito. Mohamed Siad Barre fece ciò che stavano facendo Idi Amin in Uganda, Mobutu Sese Soko in Zaire, e Mengistu Haile Mariam in Etiopia. Uccisero, imprigionarono o esiliarono ogni uomo o donna che potesse rappresentare una minaccia al loro potere. Mio padre, Hirsi Magan, fu tra coloro che vennero mandati in prigione. I miei primi ricordi di lui sono quelli in cui io, mio fratello Mahad, la mia defunta sorella Haweya, mia nonna e mia madre sedevamo dopo il tramonto ai piedi di un albero che chiamiamo talal, a mani giunte, pregando per il suo rilascio. Evidentemente le nostre preghiere furono ascoltate, perché dopo un certo periodo (non avevo il senso del tempo, allora –poteva trattarsi di un mese, oppure di un anno) mio padre fuggì con l’appoggio di un membro fidato del suo clan, che era anche il direttore della prigione dove era rinchiuso. Questa persona venne poi tradita ed uccisa.

Le malattie erano comuni in Africa. Io ebbi la malaria, il morbillo, una forma terribile di malattia infettiva che ricoprì il mio corpo di vesciche, e l’epatite (chiamata anche febbre gialla) dove gli occhi quasi mi si chiusero dal pus. Mia nonna era molto attaccata alla tradizione. Ignorò qualsiasi supplica affinché fossimo curati secondo la medicina moderna, a sua detta ignobile, e ci obbligò invece ad ingurgitare rimedi fatti in casa a base di erbe. Oppure faceva scrivere all’imam locale i versi del Corano su una tavoletta di legno, sciacquava la tavoletta dentro una ciotola, e recitava preghiere. Poi sputava nella ciotola, e noi dovevamo bere il risultato. Malattie infantili come il morbillo se ne andavano come erano venute, ma la mia febbre gialla sopravviveva alle cure di Nonna. Dunque la mia progenitrice passò al rimedio successivo prescritto dalla tradizione dei suoi antenati. Mi portò dal fabbro del paese. Nonna, insieme a due mie zie, mi scoprì il petto e mi bloccò a terra. Nel frattempo il fabbro nella fucina scaldava lunghe barre di ferro. Per tutto il tempo io lo guardavo, e urlavo terrorizzata all’idea di cosa sarebbe successo. Quando premette il ferro rovente sul mio petto, svenni dal dolore.

Dopo qualche giorno venni finalmente portata nell’ospedale in cui ero nata, dove mi curarono. Alcune settimane più tardi ero di nuovo in salute, ma Nonna dimenticò prontamente l’intervento della medicina moderna e scoppiava d’orgoglio all’idea che il fabbro mi avesse guarito. Mi sono rimaste tre piccole cicatrici sul petto da quel “trattamento”. Quando nonna passò alla successiva superstizione di “purificazione genitale” (a cui venimmo sottoposti tutti e tre, incluso mio fratello Mahad), avevo già avuto un’infanzia piuttosto ardua.

Intanto mia madre doveva dedicare la maggior parte del suo tempo e della sua inventiva a nutrirci adeguatamente. Era costretta a portare di nascosto il cibo in casa, per aggirare le norme di razionamento di Barre. Cercò aiuto tra i membri del clan per trovare passaporti, biglietti aerei e denaro. Allo stesso tempo cresceva noi tre bambini, tentava di essere una buona figlia per la sua difficile madre, ed una moglie per un marito perennemente assente. Ogni decisione che Mamma prendeva per migliorare la nostra vita era in contrasto con un’altra delle tradizioni di Nonna. Per esempio era contro la tradizione mangiare uova e pesce; quindi ogni volta che Mamma ci portava questi cibi, conquistati con immenso tempo e fatica, Nonna li gettava via. Secondo gli dei di Nonna, spostare certi cibi in una particolare direzione dopo il tramonto li avrebbe contaminati con spiriti maligni. Ma chiaramente il cibo procurato di nascosto poteva essere trasportato solo dopo il tramonto.

L’ideale comunista sovietico imposto da Mohamed Siad Barre distrusse il modello nomade senza fornire un’alternativa migliore. La nostra famiglia era l’esempio tragicomico di tale sfacelo. Mi venne insegnato che il comunismo (che pronunciavamo Shu-i) era cattivo. Mio padre Abdeh voleva una democrazia, come in America. Il concetto di capitalismo non esisteva nel mio vocabolario. Volevamo essere come quel posto lontano chiamato America, non sapendo nemmeno come fosse. L’America era il bene, la Russia era il male. La Russia aveva armato il nostro dittatore Afwayne e gli aveva messo in testa pensieri orribili, come farci fare la fila per il cibo nel caldo opprimente.

L’Arabia Saudita era differente, ma rappresentò pur sempre una sfida. Nutrirsi non era un problema, e le case in cui abitammo (tranne a La Mecca) erano grandi e ariose. L’Arabia Saudita aveva le sue crudeltà peculiari, ma Mamma non le reputava cattive, anche se ne andava soggetta più di tutti noi. Quando mio padre non ci venne a prendere all’aeroporto di Jeddah dopo il nostro lungo viaggio per raggiungerlo, a Mamma fu negato il permesso di entrare nel paese. Quando infine venimmo ammessi, Mamma dovette sopportare l’umiliazione di venire costantemente ignorata mentre si affannava nelle sue peregrinazioni giornaliere. Veniva discriminata doppiamente: era una donna ed era di colore.

In Arabia Saudita ebbi modo di conoscere per la prima volta mio padre. Ci dava amore, disciplina senza punizioni corporali, ed incoraggiava la nostra curiosità. Per la maggior parte del tempo, però, non c’era. Le sue assenze impensierivano Mamma. Lei aveva un brutto carattere e spesso alzava la voce con Papà, o gettava in terra gli oggetti. Questo portava ad assenze ancora più lunghe, e Mamma era quasi sempre di cattivo umore.

Dopo le preghiere del venerdì, Mamma e gli ospiti che ci facevano visita ci parlavano delle punizioni corporali. In Somalia le persone venivano impiccate, imprigionate e torturate. Ci insegnarono che questo era male. Ingiusto, contro la religione e crudele. In Arabia Saudita la lapidazione delle donne, l’amputazione della mano ai ladri e la decapitazione di coloro che commettevano shrik (un grande peccato contro Dio) venivano descritte come richieste della sharia, o della legge. Secondo questo perverso modo di ragionare, il sistema veniva giustificato e la vittima presentata come cattiva -e dunque meritevole della punizione.

Nel 1979, dall’Arabia Saudita venimmo deportati in Etiopia. L’intera famiglia fu sollevata -tutti, ovviamente, tranne Mamma. I miei ricordi dell’Etiopia sono più piacevoli, ma anche più drammatici. Trovai indimenticabile la gentilezza e la disponibilità della gente. In Etiopia noi donne non dovevamo vivere separate dagli uomini. Non c’erano donne velate in giro. Giocavamo ed andavamo a scuola, ed imparammo a parlare ahmaric. Invece i ricordi della povertà sono più spiacevoli. Il numero enorme di mendicanti per strada, e le schiere di uomini, donne e bambini che avevano perso le gambe o le braccia a causa della lebbra.

Mi ricordo anche di aver messo a fuoco i primi accenni di quello che nella mia vita poi sarebbe divenuto chiaro: il sogno di mio padre, una Somalia libera e piena di sole%2C non si sarebbe mai realizzato. Quella che avrebbe dovuto essere la monumentale opposizione a Siad Barre si sgretolò tra lotte intestine, favoritismi di clan e corruzione. I giovani uomini attirati ad Addis Abeba dall’SSDF per salvare la nostra giovane nazione dalla morsa soffocante di Afweyne vennero inviati al confine con l’Etiopia. Erano male armati e poco addestrati, ma pieni dello spirito combattente che aveva reso famosi i clan Darod e Isaq. Molti di coloro che avevano giocato con noi e ci avevano insegnato poesie non tornarono più; altri tornarono senza gambe o senza braccia. Non c’erano sedie a rotelle, e finivano per giacere tutto il giorno sui materassi e sulle stuoie intrecciate, masticando qat e riflettendo sulla gioventù perduta.

Il Kenya fu meglio della Somalia, dell’Arabia Saudita e dell’Etiopia -ma ancora lontano dal regno di Zamunda. Lì imparai a parlare inglese. A Nairobi maturai da bambina ad adolescente, ed infine a giovane adulta. Dopo qualche ultimo litigio con Mamma, mio padre ci lasciò definitivamente. Haweya e Mahad, studenti brillanti, lasciarono entrambe la scuola non appena compirono quindici anni. In Kenya leggevo per sfuggire al collasso della mia famiglia. Mi piaceva leggere. Non avevamo molti libri a disposizione. Ci furono per primi i libri della Lady Bird; erano tutte favole, Biancaneve e i Sette Nani, Cappuccetto Rosso, I Tre Porcellini (che probabilmente ora è stato bandito in Gran Bretagna), Riccioli d’Oro e i Tre Orsi, Il Brutto Anatroccolo, eccetera. Poi venne Enyd Blyton: La Banda dei Cinque e Il Clan dei Sette. Dopodiché il mio inglese fu abbastanza buono da cimentarmi con Nancy Drew e gli Hardy Boys; e poi i romanzi rosa di Mills&Boon e gli Harlequin, Danielle Steel e Barbara Cartland. C’erano anche i thriller di Frederick Forsyth, Jeffrey Archer e Robert Ludlum, e i libri scandalosi di Harold Robbins e Jackie Collins. La letteratura vera e propria era solo per la scuola. In classe leggevamo Shakespeare, Jane Austen e George Orwell. Questi libri erano rilegati e trattati con rispetto: dopo averli letti, li riconsegnavamo all’insegnante e mettevamo una crocetta accanto al nostro nome, a significare che il libro era stato restituito. Attraverso quei volumi la mia immaginazione viaggiava verso la Gran Bretagna, l’America, la Russia -dove i russi erano sempre i cattivi.

In Kenya ebbi anche la mia prima fuggevole relazione con l’Islam radicale. Fu a Nairobi che incontrai Sorella Aziza ed il suo messaggio di un Islam più puro. Non era l’Islam di Nonna, con i suoi amuleti, le conversazioni con gli antenati ed i riti di iniziazione. Il vero Islam di Sorella Aziza assomigliava a quello che avevo incontrato in Arabia Saudita: improvvisamente si tornavano a udire termini come “jihad”, “ebrei” e “martirio”. E non era solo Sorella Aziza; c’erano molti altri mussulmani kenioti e somali che ottenevano borse di studio per Medina, al fine di studiare l’Islam vero e puro. La razionalizzazione della crudeltà era tornata. Anche se la vita a Nairobi fu più semplice delle esperienze in Somalia, Arabia Saudita ed Etiopia, nemmeno il Kenia poteva assomigliare al regno di Zamunda. Daniel Arap Moi era un presidente corrotto, un dittatore come Siad Barre che uccideva i suoi oppositori, e il suo regno era definito dal principio comune a tutti i tiranni dell’Africa: dividi-e-comanda. Mise le tribù l’una contro l’altra, e riuscì a restare al potere. Tutto questo era senza speranza. La promessa della Sharia non lo era.

La guerra civile in Somalia mi fece crescere più rapidamente di quanto sarebbe accaduto altrimenti. Avevo 22 anni quando Osman Musse, un lontano cugino in cerca di moglie, avvicinò mio padre. Papà, di ritorno dall’Etiopia, diede il suo consenso. Le sue motivazioni? Nella struttura clanica, le donne valgono ancora meno nei periodi di guerra. La situazione in Somalia era allo sbando, ed i clan stavano tornando ai vecchi schemi di faide sanguinarie. Il nostro clan aveva perso terre e potere. In un contesto simile, la proposta di Musse era manna dal cielo. Non era possibile sposare un uomo al di fuori del proprio clan, né un non-somalo. Mio padre portava il peso -secondo il suo punto di vista- di cinque figlie femmine ancora nubili. Quindi, diversamente dal padre del principe Akim, Papà non aveva la possibilità di mandarmi in America a cercare marito. Non mi restava altro da fare che abbaiare come la futura sposa di Akim. Non per un principe, ma per uno sciocco convinto che il mio unico compito fosse quello di dargli sei figli maschi.

Infine trovai il vero regno di Zamunda, sebbene non in Africa ma in Europa, in una piccola e testarda nazione chiamata Paesi Bassi, che aveva faticosamente strappato al mare le proprie terre. Le strade erano pulite, gli autobus arrivavano in orario. Possedevano ogni chincaglieria immaginabile. Io avevo accesso ad ogni cosa, senza impedimenti. Lì scoprii la mia libertà. In Olanda trovai anche la forza di oppormi a mio padre ed al mio clan. Ebbi aiuto dalla polizia olandese, dai servizi sociali e dai cittadini comuni. A tre settimane dal mio arrivo, il governo olandese mi aveva già concesso la residenza permanente. Non avevo niente da perdere e tutto da guadagnare. Quindi imparai la lingua. Feci diversi lavori e andai all’università. Feci quello di cui tutti parlano oggi: mi integrai. E tutto sommato, fui felice di farlo.

Poi arrivò l’11 settembre. I mussulmani in ogni luogo si rallegravano. Non tutti, in effetti, ma quelli che si rallegrarono fecero la storia. Presi parte ai dibattiti; scrissi editoriali. Sostenevo che ci fosse un legame tra gli attentati e la mancata integrazione dei mussulmani in Olanda e in Europa. Gli assassini suicidi di New York e Washington erano spinti dai principi, non dalla povertà. Istruire alla civiltà era la risposta, insieme all’emancipazione delle donne dai mussulmani olandesi. Per queste idee mi minacciarono. I miei amici olandesi, generosi e ingenui, non sapevano cosa fare. Allora mi mandarono in America. Una volta rientrata in Olanda entrai in Parlamento. Rifiutavo di modulare il mio messaggio sulle stime elettorali del giorno, e per questo causai al mio partito ed alla coalizione parecchi mal di testa. Gli elementi jihadisti della società intanto continuavano con le loro minacce. Nel frattempo, Theo Van Gogh -il più grande provocatore nazionale- ed io facemmo un piccolo film dove i versi del Corano erano scritti sul corpo delle donne.

Theo fu assassinato il 2 novembre 2004. Io fui rispedita in America per la seconda volta, per la mia sicurezza. Nel 2005 tornai in Olanda, nonostante volessi restare in America. Se fossi rimasta negli USA tuttavia il messaggio che avrei implicitamente inviato sarebbe stato terribile. Avrei premiato Bouyeri se non fossi tornata in Olanda; così, tornai.

L’anno scorso, a settembre, mi sono definitivamente trasferita in America. Tre diverse circostanze hanno contribuito alla mia decisione: in Parlamento avevo raggiunto ciò che volevo, e non desideravo candidarmi un’altra volta. Sentivo che il mio messaggio sarebbe stato più forte ed efficace in America. Dopo numerose richieste di lavoro a vari think-tank, mi decisi per l’American Enterprise Institute -una delle poche decisioni veramente sagge della mia vita; un giudice della Corte d’Appello dei Paesi Bassi approvò un procedimento contro di me intentato dai miei vicini di casa, in cui sostenevano che io rappresentassi una minaccia indiretta alla loro sicurezza ed alla loro proprietà; Rita Verdonk, ex ministro per l’integrazione e l’immigrazione, revocò la mia cittadinanza, sulla base di un documentario sulla mia vita in cui si diceva che avevo mentito nella mia richiesta di asilo.

Se guardiamo oltre alla comicità del film Coming to America, il quadro che viene presentato è sconcertante. Il quartiere del Queens (dove Akim spera di trovare la sua futura sposa) è un luogo orribile e violento. Tutti i membri di McDowells, a parte la ragazza di cui Akim si innamora, sono avidi, superficiali e scostanti. New York appare come un luogo freddo e mostruoso in confronto al luminoso regno di Zamunda. Il Waldorf Astoria (che forse dovrebbe simboleggiare il grandeur americano) è severo e accigliato, ed ha disperatamente bisogno di una rinfrescata.

La mia esperienza è decisamente differente. Tutti gli americani che ho incontrato sono stati molto ospitali, affabili, gentili e prodighi di buoni consigli. Chris DeMuth mi chiamò non appena rassegnai le mie dimissioni dal Parlamento olandese e mi offrì un posto permanente come fellow all’AEI. Dal momento in cui sono arrivata in America l’anno scorso, tutti i miei colleghi, i loro mariti e le loro mogli mi hanno dimostrato unicamente gentilezza, generosità ed amicizia -fino alla giornata di ieri passata a fare rafting sulle rapide, ed alla serata con i balli di gruppo che ne è seguita. In Africa, il regno di Zamunda non esiste. Forse il quartiere del Queens è davvero un posto brutto e pericoloso; ma signore e signori, non esiste un altro luogo come l’America.

Ayaan Hirsi Ali è resident fellow presso l’American Enterprise Institute.

(Traduzione di Alia K. Nardini)