Il mistero dei numeri primi che non vale la pena di svelare
21 Maggio 2016
Arida? Ma quando mai! Anche la matematica sa offrire storie sorprendenti, come quella di un giovane ricercatore che risolve un problema su cui si erano arrovellati per un secolo fior di professori, e poi scompare nei boschi di San Pietroburgo sottraendosi alle ricerche dei tanti che vogliono congratularsi con lui, e anche di coloro che vogliono dargli in premio un milione di dollari.
C’è poi un altro problema “da un milione di dollari” che ha compromesso l’equilibrio mentale del famoso genio che ha tentato di trovarne la soluzione; ma se da qualche lontana galassia arrivasse un alieno e ve la regalasse, quella soluzione, rinunciate al milione e tenetevela per voi, perché vi schiuderebbe tutte le casseforti (elettroniche) del mondo.
“L’enigma risolto, e il suo ancor più enigmatico solutore”: così il New York Times intitolava, nel 2006, un articolo su Grigory Perelman, il matematico russo al quale, dopo ben tre anni di revisioni del suo lavoro, è stato riconosciuto il merito di aver dimostrato la “congettura di Poincaré”, secondo cui una sfera tridimensionale è semplicemente connessa.
Se queste ultime parole risultano misteriose, basti qui dire che la proprietà di essere “semplicemente connesso” è un concetto appartenente a una branca della matematica chiamata topologia, concetto che gioca un ruolo fondamentale non solo in matematica ma anche in fisica applicata, ad esempio nella teoria dell’elettromagnetismo.
Tornando alla cronaca, il Nyt si riferiva al curioso comportamento di Perelman, che dopo aver disertato l’invito a Madrid per essere insignito della “Fields Medal”, ossia il più prestigioso riconoscimento per un matematico, si era reso irreperibile agli emissari del Clay Mathematics Institute, che volevano premiarlo con un milione di dollari. Per avere una (parzialissima) spiegazione di un comportamento tanto misterioso si è dovuto aspettare fino allo scorso luglio, quando Perelman ha ufficializzato la sua rinuncia al premio spiegando che “il dottor Hamilton – un illustre matematico dalle cui ricerche Perelman è partito per la sua dimostrazione – lo merita più di me”.
La congettura di Poincaré è l’unico problema segnato come “solved”, risolto, tra i sette “Millennium Problems” per la soluzione dei quali il Clay Mathematics Institute – istituzione privata dedicata allo sviluppo delle scienze matematiche – offre un milione di dollari.
Tra essi figura la “ipotesi di Riemann”, che ha a che fare con una questione che, da quando esiste la matematica, è risultata particolarmente impervia: stabilire una regola che permetta di individuare i numeri primi, cioè quei numeri che sono divisibili soltanto per se stessi e per 1 (per esempio, 7 è un numero primo perché non esistono divisori di 7 diversi da 7 e da 1; 6 non è primo perché, oltre ad essere divisibile per 1 e per 6, è divisibile anche per 2 e per 3.
Dire “6 è divisibile per 2” vuol dire che il resto della divisione di 6 per 2 è nullo; in tal caso, 2 è un “divisore” di 6). Ebbene, il grande matematico tedesco Georg Bernhard Riemann nel 1859 introdusse una funzione (come dire, una formula), da allora nota come “zeta di Riemann”, che – si suppone – permette di individuare tutti i numeri primi.
Insomma, l’ipotesi di Riemann non è cosa da poco. E’ noto che esistono infiniti numeri primi, ma capire se un numero è primo o meno può portare via molto tempo. Se il numero è molto elevato, l’impresa è ardua anche per un computer.
La validità della funzione zeta di Riemann è stata verificata per un miliardo e mezzo di casi; ma ciò, ça va sans dire, non rappresenta una dimostrazione della sua validità in generale. A eliminare quel “si suppone” di cui sopra ci provò John Nash, il matematico impersonato da Russell Crowe nel film “A beautiful mind”.
Non gli fece bene. Citiamo Peter Lax, matematico di origine ungherese (la sua famiglia, ebrea, riparò negli Stati Uniti nel novembre del 1941), da un’intervista rilasciata al New York Times nel marzo del 2005, ossia poco prima che gli venisse conferito il suo terzo “premio Abel” (l’equivalente del premio Nobel per i matematici).
Così Lax risponde alla domanda se abbia conosciuto Nash (dettata proprio dal fatto che, poco prima, era arrivato nelle sale “A beautiful mind”): “Sì, e ne ho enorme rispetto. Ha risolto tre problemi matematici molto difficili, poi si rivolse alla ipotesi di Riemann, che è mistero profondo. In confronto, il teorema di Fermat (dimostrato nel ’95, dopo tre secoli e mezzo di tentativi – ndr) non è niente. Con quel teorema, una volta che hanno trovato una connessione con un altro problema, hanno potuto procedere. Ma la congettura di Riemann… ha così tante connessioni con altre realtà della matematica, e anche così non si riesce a venirne a capo. Nash ha provato ad affrontarla, ed è lì che si è spezzato”.
E’ ormai da trent’anni che John Nash (nato nel 1924, premiato con il Nobel per l’economia nel ’94) convive con una forma grave di schizofrenia, che gli è costata ricoveri in ospedale psichiatrico e sedute di elettroshock.
Si dice che gli scienziati “hanno la testa tra le nuvole”. E’ vero: una mente che si misura con un problema di un certo spessore ne viene assorbita, se ciò non accade non può comprenderlo. Secondo Peter Lax, Nash entrò nella funzione zeta di Riemann, ma era “mistero profondo”, e non ne uscì più. Andrew Wiles, l’inglese che è riuscito a dimostrare il teorema di Fermat, sarebbe d’accordo con la diagnosi di Lax: “Vieni catturato dal problema, ne resti intrappolato – racconta Wiles parlando delle difficoltà incontrate in quella dimostrazione, in un’intervista raccolta nel ’95 dal New York Times. – Sapevo bene quali fossero i pericoli psicologici di tutto questo”.
Posto che per un matematico trovare la dimostrazione della ipotesi di Riemann varrebbe più di tutto l’oro del mondo, c’è da dire che, anche da un punto di vista venale, un tale risultato vale ben più del milione di dollari messo in palio dal Clay Mathematics Institute, o della ricompensa in denaro associata al Premio Abel.
Il mondo dei numeri primi è ancora largamente inesplorato. Per questo, e per le loro proprietà matematiche, i numeri primi sono la base di un ampio insieme di codici, in particolare dei codici in uso nell’era di Internet. Chi riuscisse a dimostrare l’ipotesi di Riemann otterrebbe la piena conoscenza di quel mondo, e dunque la capacità di poter violare i codici elettronici.
Erano gli anni ’70 quando tre ricercatori del MIT – Ron Rivest, Adi Shamir e Leonard Adleman – svilupparono l’algoritmo che, a partire dal nuovo millennio, costituisce la base dei cifrari che proteggono la riservatezza dei numeri delle carte di credito, e in generale di qualunque password di accesso online.
Il codice si basa sulla scelta di due numeri primi, che ne rappresentano le chiavi; più alti sono, più il codice è sicuro. Il messaggio cifrato che viaggia sul Web, per esempio dalla banca al cliente, che può essere intercettato, è legato al prodotto di quei due numeri; ma risalire dal prodotto ai due numeri che l’hanno generato, e quindi violare il codice, è praticamente impossibile, anche per il più potente dei computer.
Per farsi un’idea: in un esperimento effettuato nel 2005, un supercomputer il cui sistema di calcolo radunava la potenza di ottanta processori da 2,2 Giga Hertz impiegò cinque mesi per trovare due divisori primi di un numero di 193 decimali. I numeri utilizzati nella cifratura RSA (così chiamata dalle iniziali dei suoi inventori) sono costituiti, di regola, da trecento cifre decimali.
La cifratura RSA sta rapidamente diventando la protezione standard dei dati ultrasensibili in ambiente internet. Si basa sull’assunto secondo cui fattorizzare un numero molto grande (cioè, trovare tutti i numeri primi che lo dividono) è un’operazione impraticabile da un punto di vista computazionale. Ciò è senz’altro vero allo stato attuale delle conoscenze, ma la ricerca va avanti.
Se venisse dimostrato il problema di Riemann, se si risolvesse l’enigma dei numeri primi, chissà… Crollerebbe Wall Street? Sprofonderebbe il Nasdaq? Meglio premunirsi, hanno pensato le grandi aziende come Hewlett Packard o At&T, che hanno stanziato corposi finanziamenti per le ricerche sui numeri primi. Per parafrasare Marcus du Sautoy, esperto in Teoria dei numeri e professore a Oxford: “Il mondo degli affari non ha mai prestato tanta attenzione come oggi a quanto accade sulle lavagne dei matematici puri”.
[Pubblicato il 9 settembre 2010]