Il “moderato” Assad si riprende Daraa a colpi di mortaio
25 Aprile 2011
Ancora ieri l’autorevole rivista Foreign Policy pubblicava un lungo articolo sul presidente Assad, il medico con gli occhiali che dopo la morte del suo tirannico padre avrebbe dovuto riformare la Siria e democratizzare il partito Baath, come se il regime siriano fosse davvero riformabile e il baath qualcosa di diverso da una struttura di stampo totalitario.
Nei giorni scorsi le cancellerie internazionali e la diplomazia hanno accolto con soddisfazione le promesse di Assad, soprattutto quella di eliminare lo stato d’emergenza in vigore da decenni nel Paese, un risultato ottenuto grazie alla pressione dei movimenti popolari che hanno gettato la Siria nel caos, e costretto il presidente a denunciare un improbabile complotto esterno, crociato e sionista, quando invece è proprio il regime siriano ad essere ipocrita e bugiardo con il suo popolo.
Si è scritto e detto che il povero Assad è vittima degli assetti familiari della casta alawita al potere nel Paese, una minoranza legata all’Iran sciita, per conto del quale sponsorizza l’Hezbollah libanese e la dirigenza di Hamas in esilio a Damasco. Ma tutto questo, la sua presunta moderazione, le promesse di riforma, oggi appaiono soltanto raffinate interpretazioni di esperti, che si scontrano con la realtà dei fatti: Assad ha ordinato una repressione che da soft è diventata hard, solo ieri, secondo Al Arabya, ha provocato 25 morti bombardando il centro della città di Daraa. Ci sono state 300 vittime dall’inizio delle proteste.
Assad non è un riformatore; dopo Gheddafi, è il prossimo candidato naturale al regime change, anche se bisognerà aspettare prima l’esito della guerra in Libia. La caduta degli Alawiti in Siria oltre ad essere un nuovo capitolo delle rivoluzioni arabe potrebbe rivelarsi un tassello decisivo nella guerra fredda che si sta combattendo fra le due potenze egemoni del mondo musulmano, l’Iran e l’Arabia Saudita. Nel Golfo Persico, le ambizioni espansionistiche di Teheran sono state temporaneamente contenute dal Consiglio dei Paesi Golfo, quando si è deciso di inviare le truppe saudite in Bahrain. In Bahrain, una minoranza sunnita resiste alla rivolta della maggioranza sciita della popolazione. Gli Usa e le potenze occidentali non hanno costretto i sauditi a ritirare le proprie truppe dall’arcipelago dopo l’invasione.
In Siria, la composizione etnica e religiosa della popolazione è più complessa: comprende gli alawiti, i sunniti, maggioritari, i drusi, i curdi, ed altre minoranze. La rivolta non si è fermata quando Assad ha promesso di dare lavoro ai giovani e far progredire l’economia perché è su altro fronte, più ideale che materiale, che si combatte la rivoluzione di Damasco. Uno scontro su base etnica e religiosa destinato a destabilizzare il Paese e l’intero quadrante mediorientale: a nord, con la Turchia, spaventata dal riaccendersi della miccia curda, a occidente, verso il Libano, cercando nell’inasprimento della guerriglia di Hezbollah contro Israele un diversivo alla crisi interna; a oriente, verso l’Iran e l’Iraq, dove gli americani intendono lasciare ancora diecimila uomini dopo la fine delle operazioni di ritiro; infine a sud, verso la Giordania, dove si sono rifugiati tanti dissidenti e profughi siriani. Forse più che sulla moderazione di Assad occorre iniziare a chiedersi chi ne prenderà il posto. Ricordando che il medico che non voleva diventare re, una volta al potere, ha seguito indegnamente le orme paterne. Da Hama a Daraa.