Il mondiale di Paolo Rossi e quell’Italia che si riscoprì nazione oltre le ideologie
15 Dicembre 2020
L’11 luglio 1982 gli italiani scendono in strada dopo che la nazionale ha battuto i tedeschi per 3-1 nella finale del Mundial di Spagna. Paolo Rossi è il capocannoniere del mondiale. Un’intera nazione è in festa, tra bandiere sventolanti e caroselli di macchine, un tripudio che dura per ore.
Il 9 maggio del 1978, nel bagagliaio di un’auto parcheggiata in via Caetani a Roma, viene ritrovato il corpo di Aldo Moro. Quando vinciamo il Mondiale sono passati oltre 4 anni dall’assassinio di Moro ma il paese non sembra ancora guarito da quella ferita. In mezzo, tra i molti fatti tragici, l’uccisione del giudice Alessandrini, l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’omicidio di Piersanti Mattarella per mano della mafia, l’uccisione del professor Bachelet, la bomba alla stazione di Bologna con 85 morti, la scoperta della P2. Nemmeno quel 1982 fu un anno facile: una caserma dei carabinieri viene assaltata da un commando delle Br; inizia il processo di primo grado per l’assassinio di Aldo Moro; la mafia uccide il segretario del Partito comunista siciliano Pio La Torre e il suo autista. Il 17 giugno il corpo del banchiere Roberto Calvi viene trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri di Londra. Solo qualche giorno dopo la vittoria del Mundial di Spagna vengono assassinati dalle Br il capo della mobile di Napoli e un maresciallo dei carabinieri. Il 3 settembre la mafia uccide il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie e all’agente di scorta; all’inizio del 1983 si conclude il processo Moro con le prime condanne.
L’urlo di Tardelli, dopo il secondo goal nella finalissima del Mundial 1982, è diventato l’urlo di liberazione per una nazione che prova a dimenticare gli anni di piombo, che si era divisa (e che continuava, per molti aspetti, a dividersi) tra estremismi ideologici di sinistra e di destra. Scrivere, tuttavia, che quella festa di calcio fosse un rito collettivo di liberazione da un decennio intossicato dall’ideologia non è del tutto vero. Perché quelle tossine perdurarono e perché quel rito dionisiaco non fu che un tempo sospeso, un tempo in cui gli italiani, almeno per alcune ore, si riscoprirono nazione, superando gli antagonismi ideologici, senza necessariamente doversi aggrappare ai massimi sistemi. Quel Mundial non fu affatto la fine improvvisa di quella stagione perché in quel 1982 e nell’anno successivo altri fatti gravi continuarono a funestare e inquietare il paese, ma fu sicuramente lo spartiacque simbolico di un decennio di “desiderio”, morte e odio che cedeva il passo pian piano alla riscoperta della nazione, al disimpegno ideologico, ad un credo liberale e liberista che trovava in Reagan e Thatcher i suoi riferimenti. Quegli anni ’80 non furono solo gli anni dell’edonismo e della spensieratezza perché sotto le acque calme si agitavano le inquietudini che sarebbero esplose alla fine del decennio e all’inizio degli anni ’90. Sul piano mondiale gli anni ottanta furono un decennio di cerniera, uno snodo storico importante che portò a maturazione alcuni processi iniziati negli anni ’70 e che incubò molte tendenze dei decenni successivi, come dimostra il libro Gli anni ottanta come storia (Rubbettino 2004), a cura di Quagliariello, Pons, Craveri e Colarizi. Per quanto riguarda l’Italia, la crisi dei partiti era già in corso e la lotta alla mafia doveva ancora pagare il suo prezzo più sanguinoso con la strage di Capaci e l’uccisione di Borsellino.
La nazionale italiana era arrivata ai mondiali nel peggiore dei modi: la stampa era quasi tutta ostile, il silenzio stampa voluto dalla squadra e sostenuto da Bearzot rendeva il clima ancora più teso, Paolo Rossi era reduce da due anni di squalifica e poche partite sulle gambe. Rossi è un ragazzo gracile, sorridente, garbato, in cui ormai crede solo Bearzot: non era uno sconosciuto. Il soprannome “Pablito” se lo era guadagnato nei mondiali di Argentina. Non era proprio un signor Rossi qualunque, a dispetto del suo nome che più comune non poteva essere. Ma nelle prime tre partite sembrava l’ombra di se stesso, un po’ come l’Italia, un senso di nazione offuscato dagli ideologismi e da una strisciante guerra civile. Poi quei tre goal contro i fuoriclasse brasiliani: l’Italia del contropiede, di quel “santo catenaccio”, di cui scrive Gianni Brera, ma non certo priva di fantasisti, scopre in Pablito l’italiano che non ti aspetti, quello che sa aspettare, che sa cogliere l’attimo, che si fa trovare pronto, che non credevi potesse farcela, che segna e sorride. “Quel modulo all’italiana che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana” (parole di Brera su Repubblica) è però interpretato da un’orchestra eterogenea di talenti: un altro friulano taciturno come Zoff che faceva la diga, un Conti che sembrava più brasiliano dei brasiliani, un Antognoni che aveva classe da vendere, un Gentile che “francobollava” e fermava “marziani” che si chiamavano Maradona e Zico. E poi quel Tardelli che urla contro il cielo. L’urlo liberatorio dopo gli anni della rabbia e dell’odio civile. E poi quel presidente (“che dietro i vetri un po’ appannati fuma la pipa” cantava Venditti), Sandro Pertini, il primo socialista a diventare Presidente della Repubblica, con un passato da partigiano, schietto, passionale, forse il presidente più amato dagli italiani. Insomma di talenti ce n’erano a iosa – specchio di un’Italia altrettanto ricca di talenti e di genialità in altri settori – pure in una squadra tacciata di difensivismo.
In fondo ad un pozzo, circa un anno prima, era caduto il piccolo Alfredo Rampi: una diretta televisiva non stop della Rai era andata avanti per ore, tenendo gli italiani incollati allo schermo. Pertini c’era. Era stato, per tutta la notte, vicino a quel maledetto pozzo ad incitare i soccorritori e a tentare di parlare con un microfono con il piccolo Alfredo. Rimase lì fino al mattino seguente quando ci si rese conto che per Alfredino non c’era più niente da fare. Un evento mediatico senza precedenti e un trauma per l’intera nazione. Un anno dopo gli italiani erano quasi tutti dinanzi alla tv. Ancora una volta. Non esistevano ancora i telefonini, internet, i social. Era la scatola magica televisiva a scandire i fatti e i riti della popolazione. Tutto passava da lì: dalla cronaca nera allo sport. Il paese si fermò, in quel luglio del 1982, per un sogno di vittoria che avrebbe riportato in auge – come ha scritto il filosofo Marcello Veneziani su La Verità del 13 dicembre scorso – la bandiera tricolore. Pertini era in Spagna ad incitare la nazionale, ad esultare sugli spalti, a giocare a scopone con Bearzot, Zoff e Causio sull’aereo che riportava a casa gli eroi del Mundial. Ad un giornalista che gli chiedeva se non si stesse esagerando con i festeggiamenti e se non si rischiasse di dimenticare i problemi seri della nazione (mafia, crisi economica, terrorismo) Pertini rispondeva che dopo sei giorni arriva la domenica in cui chi ha lavorato ha diritto ad una “sosta” e ad andarsene con la famiglia al mare o in montagna a “gioire”. Il diritto al tempo di festa, il diritto alla gioia, il diritto a riscoprirsi nazione. Quella nazione e quella patria troppo neglette e troppo dimenticate in nome di quelle patrie senza territorio che sono le ideologie. Don Gianni Baget Bozzo sosteneva su Ragionpolitica che la Prima Repubblica nasceva da Yalta e che i partiti che la rappresentavano erano ideologici perché non avevano un’identità legata alla nazione o alla patria ma si basavano sull’antitesi mondiale tra democrazia e comunismo. Dopo il crollo del muro e dopo Tangentopoli, la democrazia italiana, secondo Baget Bozzo, era ormai pronta per resuscitare le idee forti di patria e di nazione: a cogliere la palla al balzo fu Silvio Berlusconi che fondò un movimento con un nome appunto patriottico (“Forza Italia”). Il sentimento nazionale veniva considerato la base della democrazia, della sovranità popolare e della legittimità. Prima di Berlusconi – secondo Baget Bozzo – vi era stata solo l’esperienza del socialismo tricolore di Craxi e Pertini, esauritasi drammaticamente con “Mani pulite”. Tre fattori furono, quindi, alla base del nascente berlusconismo: la riscoperta dell’elemento nazionale, il liberalismo e quella “ipopolitica” (dopo l’iperpolitica ideologica e partitica della Prima Repubblica) di cui parla lo storico Giovanni Orsina (Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio 2013). Ma davvero il calcio è lo specchio della storia di una nazione? Non è un mistero che ci sia un legame antico tra calcio e politica: molti regimi totalitari hanno usato il calcio per fini di propaganda. Per questa ragione Jorge Luis Borges sosteneva che il calcio potesse favorire i nazionalismi e magari essere asservito alla propaganda di regime. Attenzione, però, a non buttare il bambino con l’acqua sporca: se il nazionalismo può essere talvolta pericoloso, non si può rinunciare al concetto di nazione. Come spiega il politologo Alessandro Campi, quella di nazione è una “formula d’aggregazione” legata al principio della sovranità popolare ed è l’unico antidoto al rischio di essere governati da tecnocrazie, “l’unica cornice istituzionale, simbolica e normativa” dentro la quale coniugare democrazia e libertà di una comunità politica (Nazione, Il Mulino 2004, p. 212). La nazionale di calcio è forse l’ultima “riserva naturale” che resiste alla globalizzazione calcistica in cui molti grandi club sono ormai delle multinazionali, sia come asset societari che come provenienza dei giocatori. La nazionale è l’ultimo baluardo del “patriottismo” calcistico e, in qualche modo, con la sua epica, contribuisce a scrivere la storia di una nazione.
Quel ragazzo perbene, dalla faccia pulita, sorridente, Pablito Rossi, forse fu una metafora di un’Italia nuova (o che aspirava ad esserlo), che voleva solo credere in se stessa e non in presunti paradisi (o inferni) ideologici. Pablito voleva solo giocare e fare goal. C’è un frammento di Eraclito che dice: “Il tempo è un fanciullo che giuoca spostando i dadi: il regno di un fanciullo” (I Presocratici, Laterza 1986). Un aforisma destinato a influenzare Nietzsche e Deleuze. E che avrebbe spinto Heidegger a domandarsi perché il grande fanciullo nell’Aion (il tempo) “gioca il gioco del mondo”. Il grande fanciullo “gioca perché gioca”, non c’è un perché, il gioco non ha altra ragione che se stesso: “il gioco gioca giocando” (Il principio di ragione, Adelphi 1991, p. 192). Pablito assomigliava a quel grande fanciullo che, sorridente, voleva solo giocare. Giocò e fummo sul tetto del mondo. Quel Mundial non ha cambiato la nostra storia e nemmeno fermato la lunga crisi in atto. Ma è stato un momento di liberazione emotiva, di disintossicazione da un decennio con troppo odio che in qualche modo ha fatto capire che, al di là degli estremismi di sinistra e di destra, era possibile una società liberale dove il disimpegno (dall’ideologismo) non significava necessariamente abdicare all’impegno civile e democratico.