Il mondo arido, muto e senza Dio di Cormac McCarthy

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Il mondo arido, muto e senza Dio di Cormac McCarthy

Il mondo arido, muto e senza Dio di Cormac McCarthy

27 Aprile 2008

«Le cose sono
ben più numerose delle parole
[…] dato
che non abbiamo abbastanza nomi per assegnarne uno a ogni cosa»
(Seneca, De beneficiis, 34, 2). E perciò
chiamiamo «piede» sia quello che mi funziona poco da qualche tempo, sia quello
del letto, sia quello del verso, etc..

È questa una verità che per lungo tempo
ha fatto parte del patrimonio della cultura occidentale: la realtà è molto più
ricca della sua rappresentazione concettuale. Almeno è stato così fino al Vico
delle Institutiones Oratoriae, che fa
eco a questo principio enunciato da Seneca, pur senza citarne espressamente la
fonte.

Poi sono venuti illuminismo ed
idealismo, con i loro derivati ideologici – primo fra tutti il marxismo in
tutte le sue versioni –, che hanno cercato d’imprigionare la realtà in una sua
rappresentazione, di ridurla a «idea della realtà», declinandola in forma
utopica e assegnando alla Rivoluzione, cioè ai rivoluzionari e al partito che
li organizza, il compito di ri-costruirla finalmente «libera dal male».

Quel che invece è accaduto è noto: la
pretesa di ri-costruire il reale si è tradotta nella sua demolizione. E le
macerie politiche, sociali, economiche, le distruzioni materiali e le
innumerevoli vittime che le ideologie di derivazione illuministico-idealistica,
i socialismi internazionalisti e nazionali, hanno lasciato dietro di sé nel XX
secolo, ne sono l’inconfutabile prova.

Quelle ideologie dichiararono guerra a
Dio e alla tradizione cristiana occidentale. Sono state davvero sconfitte? O, sviluppandosi,
hanno solo cambiato pelle, come un virus
che muta le sue caratteristiche e così resiste ai vaccini individuati per sconfiggerlo,
e può perciò di nuovo attaccare l’uomo, con un morbo nuovo eppure antico?
Nichilismo e relativismo sono questa «nuova pelle», con il conseguente e
coerente egotismo «che ha come misura solo l’io e le sue voglie», e appaiono
sempre più come fattori di una nuova devastazione, di una catastrofe, questa
volta antropologica piuttosto che materiale.

Il romanziere americano Cormac McCarthy
sembra percepire questa condizione apparentemente priva di umana speranza
meglio di altri.

Egli l’ha già interpretata
magistralmente nel suo Non è un paese per
vecchi
, dove, all’insensata e brutale violenza del nostro tempo spietato,
fa da contrappunto la saggezza antica e «di destra», naturalmente religiosa,
capace ancora di stupirsi per il male nel mondo e di ringraziare per il bene
ricevuto da Dio sapendo di non meritarlo, dello sceriffo Ed Tom Bell. Al quale
non sfugge l’ombra satanica che si stende sulla città moderna, sulla sua
opacità, sui suoi vizi, sulle smanie distruttive e autodistruttive di una
amoralità che ha nella droga la propria cifra.

Ma è ne La strada, il suo ultimo romanzo, premio Pulitzer 2007, che la percezione della disperata condizione umana
contemporanea trova una forma espressiva che prende il lettore e gl’impedisce
di staccarsi dalle pagine del libro prima di essere giunto alla fine.

Metafora del nostro tempo «arido, muto, senza dio», è un «dopo»
che è già accaduto. Il mondo è morto: una terribile catastrofe (una guerra
nucleare? un cataclisma?) – allusione alla catastrofe antropologica di cui ho
appena detto – ha inaridito la terra, ha tolto trasparenza alle acque
svuotandole di ogni forma di vita, depopolato il cielo, cancellato i colori ed
ogni traccia della bellezza esteriore, ucciso tutti gli alberi; tra i
sopravvissuti e il sole e il suolo, una patina di cenere, di pulviscolo
volatile causato da incendi diffusi, che costringe ad indossare una mascherina
e rende livido il panorama.

Fa freddo, molto freddo.  

Tempo e spazio non hanno più nome, non
sono più definibili. %3C/p>

Un uomo ed un bambino, senza nome e
senza età, l’uomo ed il bambino, vagano come tanti alla
ricerca di mezzi e luoghi di sopravvivenza. Sono padre e figlio. Ed il padre ha
trovato nella protezione del figlio una vocazione e una missione, che gli ha
consentito di non essere tentato dal suicidio e di trovare la forza per vivere
e lottare: «Io ho il dovere di
proteggerti. Dio mi ha assegnato questo compito»
. Il bambino è «l’unica cosa che lo separava dalla morte».
La moglie, la madre del bambino, invece ha scelto il suicidio, non ha saputo
amare, spaventata dal destino proprio e del figlio, la cui esistenza ritiene indegna
di essere vissuta, e prima di uccidersi confessa che avrebbe ucciso anche il frutto
delle sue viscere, per il suo bene, se lui, il padre, non gliel’avesse impedito
con la sua semplice presenza.

In una natura ormai estranea e ostile,
attraversando le rovine di una civiltà che per il suo progresso tecno-scientifico,
per la grandiosità delle sue realizzazioni materiali, si è pensata come la
rivincita su Dio dopo Babele, e che invece è ancora una volta vinta dalla «rivelazione finale della fragilità di ogni
cosa»
, i due percorrono una strada, che è fatta di un groviglio di itinerari
senza origine e anonimi. Continuano a camminare verso il mare alla ricerca di
un improbabile tepore. Sono forti dell’amore purissimo che li lega e della
tenerezza che ne scaturisce, armati di una pistola con solo due pallottole per
difendersi dalle minacce mortali dei predoni – sopravvissuti come loro, che
cercano e accumulano carne umana di cui nutrirsi, fino a procrearla apposta –, tra
incontri simbolici e sorprendenti ritrovamenti delle risorse per vivere ancora,
nutrirsi e proteggersi dal freddo, grazie ai legati della laboriosità e della
capacità di conservare, di non consumare e dissipare tutto, di chi li ha preceduti.

Il bambino ha paura. È terrorizzato. Ma
non smette di pensare al bene, al giusto, al vero. La bellezza sopravvive nella
sua interiorità. Lui che è nato quando la catastrofe era già accaduta, che non
ha mai visto un altro bambino e non ha mai conosciuto la convivenza ordinata,
la convivenza fraterna, ha compassione per i vivi e per i morti, si pone il
problema della moralità di ogni atto, sa e intende amare, pure in un mondo desolato
e senza futuro. Convince il padre a donare parte del poco che hanno, a non
privarsi per lui della misera razione giornaliera di energia. È buono, vuole semplicemente
essere buono. «Siamo ancora noi i buoni.
E lo saremo sempre»
. «Se non è lui il
verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato»
, pensa il padre, ed il bambino
osserva sfarinarsi un fiocco di neve come
«l’ultimo esercito della cristianità»
.

L’uomo stringe a sé il figlio, prova
dolore per la sua magrezza ossuta, gli chiede scusa per le tremende e nefande
brutture che non riesce ad evitargli di osservare, e quando il bambino gli
chiede «noi non mangeremmo mai nessuno,
vero? Neanche se stessimo morendo di fame?»
, gli risponde rassicurandolo «no. Certo che no». E la memoria del
lettore corre al racconto di Solzenicyn, dei fuggiaschi dal GULag, che stremati
e vinti dalla fame nel deserto della taiga siberiana pensano di uccidere il più
debole del gruppo e nutrirsi delle sue carni, bere il suo sangue. Ma poi
l’ultimo brandello d’umanità che il comunismo non aveva ancora loro strappato
li convince che no, non possono essere come «gli altri», come i carnefici
cekisti. Loro sono diversi, e certe cose non le fanno.

L’uomo, osservando gli scaffali
ribaltati in mezzo alle rovine di una biblioteca incendiata, «prova un moto di rabbia di fronte a quelle
migliaia di menzogne allineate rigo su rigo»
. Quella realtà futura, senza
nome e senza luogo, dove «non c’è un
dopo»
perché «il dopo è già qui»,
somiglia sempre di più al nostro tempo, al nostro mondo, pure apparentemente
intatto, vivo, caldo e colorato. Già
qui e ora c’è qualcuno, o più di qualcuno,
«che ha fatto del mondo una menzogna fino all’ultima parola»
.

Se una volta c’erano più cose che nomi,
dopo la grande ed omicida menzogna del tentativo di ridurre il mondo alla sua
idea, sembra che le cose non ci siano più, e che le parole siano persino
troppe. Ma presto i nomi seguiranno le cose nell’oblio. La realtà sta sfuggendo
all’uomo, come si andava estinguendo agli occhi del protagonista de La strada: «I nomi delle cose […] seguivano
lentamente le cose stesse nell’oblio. I colori. I nomi degli uccelli. Le cose
da mangiare. E infine i nomi di ciò in cui uno credeva. Più fragili di quanto
avesse mai pensato. Quanto di tutto questo era già scomparso? Il sacro idioma
privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà»
.

È davvero diversa la nostra condizione?

McCarthy ce ne offre una straordinaria
metafora, che talvolta prende alla gola, ed un groppo sembra soffocarci.

Ma nel difetto apparente di speranza e
cioè di storia, il bambino de La strada
somiglia sempre di più al puer
virgiliano, se non ad un altro Bambino. Il suo ingenuo amore per i vivi, per i
morti e per quelli verranno, la sua irriducibile consapevolezza del bene e del
male, la sua ferma volontà di rimanere tra i buoni, la sua convinzione –
nonostante la paura di cui è preda e che mai lo abbandona – di cavarsela
comunque, che non succederà loro nulla di male «perché noi portiamo il fuoco», aprono – ed è una sorpresa
narrativa, perché tutto il clima del racconto è cinereo – uno spiraglio alla
speranza, ad una nuova storia, che sarà scritta intorno al fuoco di quella
speranza nutrita dalla verità e dall’amore.

È necessario perciò diventare come quel
bambino, il bambino di McCarthy, nel quale, e gliene sono grato, è
riconoscibile un altro bambino: «Allora
Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi
dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel
regno dei cieli. Perciò chi diventerà piccolo come questo bambino sarà il più
grande nel regno dei cieli»
(Mt., 18, 2-4).