Il mondo ha fame di cibo, ma i modi per sfamarlo ci sono

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Il mondo ha fame di cibo, ma i modi per sfamarlo ci sono

27 Maggio 2008

L’aumento dei prezzi cui sta assistendo l’intero pianeta (vedi articolo dell’ 8 maggio 2008 di questa rubrica) interessa, con risvolti diversi, un po’ tutte le classi sociali ed aree geografiche ma quando gli effetti a catena di questo fenomeno si trasferiscono ai paesi in via di sviluppo, dove si vive quotidianamente una situazione critica di approvvigionamento alimentare, le conseguenze sono catastrofiche. It’s the stupid politics,  così G. Wehrefritz e S. Theil titolano il loro commento su Newsweek – del 19 Maggio 2008 (pp.18-29) dove attribuiscono ad amministrazioni incapaci e politiche sbagliate l’aumento incontrollato dei prezzi e la crisi alimentare che stiamo attraversando.

Nell’arco di pochi mesi, 22 paesi hanno visto l’esplosione di rivolte e sommosse causate dalla scarsa disponibilità di cibo. Una crisi della stessa entità si è vissuta nel 1870. L’opinione di personalità politiche, responsabili di Istituti di ricerca specializzati ed organizzazioni internazionali impegnati nella lotta alla fame ed alla povertà mette in luce cause e complessità di questo fenomeno. Gordon Brown, primo ministro del Regno Unito, sostiene che è indispensabile intervenire con immediato supporto da parte dei paesi più ricchi, ma nel lungo periodo bisogna guardare ad un impegno programmatico e coordinato della comunità internazionale. Promuovere azioni che incentivino le attività agricole nei paesi meno evoluti, investire nella ricerca scientifica per ottenere colture più resistenti alle avversità ambientali e considerare criticamente quali possono essere gli effetti economico-sociali dell’espansione delle colture per biocarburanti sono le vie da percorrere per uscire dallo stato di crisi. La World Bank dovrebbe effettuare azioni di supporto per i paesi che non possono sostenere il costo delle importazioni ma allo stesso tempo nel prossimo G8 si dovranno definire regole che da un lato aprano i mercati dei paesi più ricchi e dall’altro stimolino la produttività dei paesi poveri. Robert Zoellick, presidente del World Bank Group, in linea con l’opinione di  Mr. Brown, invoca il supporto immediato da parte dei paesi donors per raggiungere i 755 milioni di dollari necessari a coprire questa emergenza. Ma progetti di breve, medio e lungo periodo sono indispensabili per trasformare in azione il programma New Deal for Global Food Policy pensato per l’alimentazione infantile e il riequilibrio dei mercati, distorti dalle politiche dei sussidi nei paesi più evoluti. Produrre di più per soddisfare la domanda mondiale e garantire alle popolazioni povere  e più vulnerabili l’accesso al cibo è anche ciò che Jeffry Saxh dell’Earth Institute, Columbia University, individua come obiettivo di breve-medio periodo che propone inoltre sei linee strategiche: 1) Istituire un fondo per gli agricoltori delle aree più povere (Africa) per sostenere l’accesso alle risorse (semi, fertilizzanti, sistemi di irrigazione, ecc.); 2) Interrompere i sussidi per le colture da biocarburanti; 3) Migliorare la resistenza delle colture dalle avversità climatiche attraverso il miglioramento genetico ed istituire programmi di assicurazione contro gli eventi straordinari; 4) Incrementare i fondi per la ricerca finalizzata all’ottenimento di colture più tolleranti agli ambienti aridi e semi-aridi; 5) Regolare più efficientemente il mercato degli import-export; 6) Supportare le attività di UNICEF e World Food Program.

Più analitico Muhammad Yunus della Grameen Bank guarda alle cause economiche e sociali che hanno portato alla diminuzione di cibo e all’agflazione, come l’aumento del prezzo del petrolio, eventi metereologici eccezionali (siccità), il mercato dei biocarburanti, la riduzione delle riserve mondiali, l’esodo dalle campagne verso le città e l’escalation sociale in paesi come Cina, India, Indonesia e Bangladesh, che nell’insieme rappresentano circa metà della popolazione mondiale. La costituzione di una global food bank controllata dalle Nazioni Unite dovrebbe essere seriamente considerata dalle agenzie internazionali deputate a garantire food-security. Ma allo stesso tempo Yunus vede la necessità di promuovere “crescita” e non “assistenza”. Progetti di lungo termine dovrebbero guardare anche ad una nuova green revolution basata sull’uso di tecnologie innovative magari sovvenzionate da una percentuale (anche minima) del prezzo di ciascun barile di petrolio esportato (dal momento che l’aumento del prezzo del petrolio è responsabile dell’ aumento dei costi di produzione in agricoltura). Allo stesso modo la pensa Josette Sheeran, dell’United Nations World Food Program, che vede nella promozione di local capacity anzichè food aid la via da seguire per ridurre la dipendenza dei paesi più poveri da quelli più ricchi. E su questa linea Jacques Diouf della FAO, guarda agli effetti positivi che questo aumento dei prezzi potrebbe avere sulle economie rurali dei paesi in via di sviluppo. L’emergenza dovrebbe essere vista non solo come una calamità ma anche come un’opportunità per dare un nuovo impulso all’agricoltura dei paesi più poveri. Questo chiaramente implicherebbe più investimenti in queste aree, in particolare per migliorare le infrastrutture e la gestione irrigua. Non dimentica inoltre di sottolineare il contributo essenziale che la ricerca scientifica può e deve portare.

Investimenti in agricoltura, tecnologie innovative e strategie di sviluppo globale queste sono quindi le risposte alla crisi alimentare. Tutto questo dovrebbe probabilmente essere affiancato da un sistema di controllo più efficiente delle risorse che vengono destinate ai programmi strategici nei paesi in via di sviluppo, spesso falliti a cause di situazioni politiche interne instabili e di difficile gestione.