Il morbo della Rai non è il Cav.  e la cura non è Gentiloni

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Il morbo della Rai non è il Cav. e la cura non è Gentiloni

Il morbo della Rai non è il Cav.  e la cura non è Gentiloni

26 Novembre 2007

Il conflitto d’interessi, che da
15 anni conduce una vita politica intermittente, diventa nei momenti di
tensione una sorta di formula magica che riesce a spiegare, per gli adepti più
devoti, quasi tutti i mali d’Italia. L’ultimo ingresso nella lista dei danni da
conflitto d’interessi è, dopo le recenti intercettazioni, la Rai. I suoi mali
risalirebbero al 1994, quando Berlusconi ottenne la prima vittoria elettorale.
Lo sostiene fra gli altri, in un editoriale sulla Stampa del 23
novembre, Andrea Romano, un osservatore politico sempre acuto. I fatti però non
si adattano allo schema. In primo luogo la datazione non convince: Ronchey
inventò il termine lottizzazione alla fine degli anni 70 e all’inizio
degli anni 90 Vespa dichiarava che il suo editore di riferimento era la Dc.
Negli anni 80 era famosa una battuta di incerto autore: in Rai hanno assunto 6
giornalisti, tre sono Dc, due Psi e uno lavora. In secondo luogo Mediaset ha
severi vincoli di comportamento: da un lato la sua libertà editoriale, come
quella delle altre televisioni commerciali, è limitata dalle norme della par
condicio che, nell’applicazione fornita dalla Autorità per le comunicazioni, ha
esteso il proprio campo di validità oltre i confini delle campagne elettorali e
include ormai tutta l’informazione politica; dall’altro la posizione dominante
nel mercato della pubblicità televisiva le conferisce una speciale
responsabilità che ha indotto due Autorità, Comunicazioni e Concorrenza, a
imporle obblighi nelle operazioni economiche (delibera Agcom 136 del 1° marzo
2005; delibera Agcm del 28/6/06).

I guai della Rai derivano, in
realtà, non dal nome di un singolo Presidente del Consiglio, ma dalla
debordante interferenza dei partiti che si manifesta nel momento stesso in cui
nasce la televisione (1954; all’inizio l’influenza è più debole in quanto la
esercita un solo partito, la Dc) e si acuisce nel 1975 quando la prima legge di
riforma tv, per democratizzare il controllo partitico, lo estende ai sei
componenti dell’arco costituzionale (centro-sinistra + Pci). Oggi lo sostiene
anche il ministro Gentiloni che, per migliorare il funzionamento della Rai
(conto economico; qualità dei programmi), ha presentato un disegno di legge
volto ad allungare la catena decisionale interposta fra i manager dell’azienda
e il potere politico che, attraverso il 99,5% delle azioni in mano al Tesoro,
ne controlla la proprietà.

Tuttavia, come il conflitto
d’interessi non è la malattia della Rai, che riesce a funzionare male anche
quando è dominata dal centrosinistra, così la diluizione del controllo (più
organi che decidono, più fonti di nomina dei decisori) non è la sua medicina.
Non cura infatti la micidiale combinazione fra i due principali agenti
patogeni: canone e proprietà pubblica. Il canone è un’imposta che spiega il 56%
dei ricavi Rai (certi; introitati a inizio anno; ottenuti senza sforzi o
insidie di concorrenti) ed è definita nel suo ammontare annuo dal Ministro
delle Comunicazioni. Oggi, omologati nel settore televisivo gli obblighi
informativi e gli standard culturali, il canone ripaga una sola specifica
prestazione: un affollamento pubblicitario minore di quello consentito ai
concorrenti (il 12% orario contro il 18%). Il canone ha reso a Rai nel 2006
1,49 miliardi  di euro; la pubblicità ha
portato invece 1,13 miliardi e quindi la norma che obbliga Rai ad avere un
terzo di spot meno dei concorrenti costa, come mancato introito, poco meno di
0,57 miliardi. Il canone offre perciò a Rai un regalo netto di circa 900 miloni di euro l’anno
miliardi; ciò porta due conseguenze di rilievo: l’azienda è senza
scampo consegnata a un’efficienza ridotta e dipende in tutto dal sistema
politico che abbina al diritto di proprietà il potere di fissare l’ammontare
del regalo che le è fatto ogni anno.

E’ evidente allora che, se non si
tolgono i due agenti patogeni, inefficienza operativa e dipendenza politica
saranno sempre l’orizzonte di Rai. La privatizzazione totale dell’intera
azienda, la messa in pari dei limiti pubblicitari e la restituzione del canone
ai cittadini (con la gradualità necessaria a evitare drammatici squilibri nei
conti) appaiono oggi – nello stato pre-Alitalia in cui versa Rai – le uniche
medicine possibili: le altre, comprese le generose utopie delle Fondazioni su
cui è imperniato il disegno di legge Gentiloni, non sono che palliativi.