Il Nobel a Liu Xiaobo per cambiare la Cina. Ma Pechino non cambia
08 Ottobre 2010
Chi è Liu Xiaobo, il 54enne nuovo premio Nobel per la pace? Un saggista e critico letterario, lettore all’università di Pechino, che dalla repressione degli studenti in Piazza Tienanmen in avanti ha sperimentato sulla sua pelle la “benevolenza” del regime comunista. Dopo l’89, Liu ebbe l’ardire di denunciare la violenta repressione militare ai danni dei giovani manifestanti e, qualche anno dopo, le autorità lo spedirono in un campo di lavoro pensando di piegarlo. Lui seppe resistere e riprese a scrivere contro l’autoritarismo del sistema cinese, basato sul modello del partito unico.
Nel 2001 pubblicò un saggio in difesa della “setta” Falun Gong continuando a punzecchiare il regime con una serie di interventi che gli avrebbero valso premi e riconoscimenti internazionali. Nel 2008 fu la volta delle Olimpiadi: mentre un buon numero di osservatori internazionali auspicava che l’evento sportivo funzionasse come un detonatore democratico per il Paese, Liu mise in guardia i più ottimisti spiegando che dopo i Giochi non sarebbe cambiato nulla sul fronte della libertà e dei diritti umani. Insieme ad altri dissidenti, è stato uno dei più solleciti nel chiedere al governo di riprendere il dialogo con il Dalai Lama – ed ha condannato le violenze a sfondo etnico scoppiate negli anni scorsi dopo che Pechino aveva deciso di usare il pugno di ferro.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la pubblicazione del documento “Charta ‘08”, modellato sulla storica “Carta ‘77” sottoscritta anni prima dai dissidenti cecoslovacchi e che avrebbe aperto una breccia nel muro dell’oppressione sovietica in Europa Orientale. La versione cinese, firmata da centinaia di intellettuali, nell’underground del Paese e all’estero, è costata a Liu una condanna a 11 anni di carcere per attività sovversiva. Arrestato, lo hanno deportato in un carcere di massima sicurezza a 500 chilometri da Pechino.
La consegna del Premio Nobel, secondo l’Accademia svedese, dovrebbe rappresentare un monito per la Cina e spingere il governo ad assumersi “maggiori responsabilità” nel momento in cui la nazione sta crescendo da un punto di vista economico. Per adesso sappiamo solo che nel momento in cui è stata diffusa la notizia le trasmissioni della BBC nella Repubblica Popolare sono state bruscamente interrotte. Il motore di ricerca cinese Baidu ha censurato qualsiasi parola-chiave legata a quanto sta accadendo. Si rincorrono voci sul presunto arresto di un giornalista che avrebbe provato a insistere nel diffondere la notizia su Internet. Come pure la polizia cinese avrebbe effettuato una perquisizione nella casa della moglie di Liu impedendo alla donna di rilasciare qualsiasi dichiarazione alla stampa.
Anche da un punto di vista diplomatico la reazione di Pechino è stata molto dura: la decisione dell’Accademia di Svezia è stata definita una “oscenità”, dopo che l’estate scorsa c’era già stata la minaccia di ritorsioni contro il governo di Stoccolma. Come ha scritto l’Economist, Liu è esattamente il genere di dissidente cinese che il regime comunista teme come la peste: “un veterano di Tienanmen che non ha mostrato segni di cedimento davanti alle intimidazioni del Partito, a dispetto di cinque anni di reclusione nel corso degli ultimi 20 anni”.
Secondo Liu, il problema in Cina non è solo l’autoritarismo del regime ma soprattutto “l’indifferenza della popolazione” rispetto a quello che sta accadendo. E non solo quella dei cinesi, purtroppo, se è vero che molto spesso i governi occidentali hanno preferito barattare la questione dei diritti umani con le opportunità economiche che si aprivano grazie agli scambi commerciali con il gigante asiatico, che continua a crescere nonostante la crisi di questi anni. Come ha sintetizzato efficacemente il segretario di stato Clinton: “le nostre pressioni su queste questioni (i diritti umani, il destino dei dissidenti, eccetera…, ndr) non possono interferire con la crisi economica globale, il cambiamento climatico e le minacce alla sicurezza internazionale”. Anche se è di queste ore la notizia che Obama ha chiesto alle autorità cinesi di liberare il prigioniero.
L’atteggiamento della Clinton sembra ricalcare, se veniamo a noi, quello dell’ex premier del centrosinistra italiano Romano Prodi, il quale, nelle ultime settimane, è intervenuto più volte sulle pagine de Il Messaggero, per esaltare le opportunità economiche di una relazione sempre più stretta fra il nostro Paese e la Repubblica popolare, senza mai accennare, neppure di sfuggita, a quel che accade in Cina sul fronte dei diritti umani, della libertà di parola, delle persecuzioni contro le minoranze etniche e religiose, nella repressione del dissenso politico. Lo stesso governo cinese, da Den Xiaoping in avanti, ha compreso quanto possa essere utile sfruttare la questione dei dissidenti, arrestandoli o liberandoli o meglio ancora esiliandoli e in definitiva usando queste persone come una sorta di merce di scambio con le altre potenze e rispetto alla comunità internazionale (e a quella interna).
Resta solo una speranza: che il governo di Pechino ad un certo punto si renda conto di quali potrebbero essere le conseguenze di un documento come “Charta ‘08” sui destini del regime e del Paese. La carta rivoluzionaria scritta da Vaclav Havel alla fine degli anni Settanta divenne un simbolo della resistenza alla oppressione comunista, mostrando che le intimidazioni, le campagne propagandistiche e il discredito degli avversari, la repressione, non avrebbero piegato chi si opponeva al sistema, amplificando al contrario tutta la forza di chi credeva nel dialogo e nella ragione. Occorse del tempo prima che il comunismo sovietico cadesse. Ce ne vorrà altrettanto prima che il regime di Pechino possa accettare delle vere riforme di tipo democratico e non è detto che questo debba per forza accadere. Il Nobel a Liu, per una volta nella controversa storia di questo ambito riconoscimento, potrebbe accelerare questi processi.