Il Nobel per la pace Obama investe più di Reagan nelle spese militari
03 Novembre 2009
di Dana Milbank
Tre settimane fa, il presidente Obama vinceva il Nobel per la pace. Nel pomeriggio del 28 ottobre, ha posto la firma in calce al più grande piano di spese militari della storia.Tale è il triste destino di un alfiere del cambiamento in un mondo immobile…
Alcuni mesi fa, Obama e il suo segretario alla Difesa, Robert Gates, esaltarono la decisione di cambiare i piani di armamento del Pentagono, concretizzatasi nell’annullamento del caccia F-22 Raptor e di un elicottero presidenziale nuovo e costoso. Ma i produttori di armi e i loro agenti nel Congresso sono riusciti a scongiurare il pericolo di un veto, e hanno forzato Obama ad accettare la commessa di nuovi propulsori per i caccia F-35, più un mucchio di altre cose delle quali i militari dicono di non avere alcun bisogno.
Obama ha dovuto ingoiarsi la minaccia di veto e mercoledì 28, nella East Room della Casa Bianca, ha firmato il National Defense Authorization Act: con uno stanziamento di 680 miliardi, è il più ricco di sempre in termini di dollari correnti. “Abbiamo passato una legge che elimina alcuni tra gli sprechi e le inefficienze del nostro sistema di difesa” ha detto il presidente, enfatizzando la parola “alcuni” e aggiungendo poi: “E’ solo un primo passo” verso il suo obiettivo. “Sono lieto di dire che abbiamo dimostrato come un cambiamento sia possibile. Un cambiamento non può arrivare velocemente né tutto in una volta, ma se insisti abbastanza, prima o poi arriverà”.
Ma arriverà abbastanza presto? Nel caso della “defense bill”, la legge di cui stiamo parlando, Obama si merita certamente un plauso per averci provato, e anche per aver fatto qualche progresso. Il fatto è che questo progresso è più graduale di quanto i suoi magniloquenti discorsi in campagna elettorale abbiano fatto supporre ai suoi elettori, che stanno diventando ogni giorno più scettici.
Un sondaggio Wall Street Journal-NBC News ha rilevato che i favori verso il governo sono al minimo degli ultimi 12 anni, che la metà degli americani approva la nascita di un nuovo partito politico e che solo il 38% degli intervistati accredita a Obama il merito di aver cambiato il “business as usual” di Washington; ad aprile erano il 47%. “Dobbiamo lavorare” ha commentato il capo addetto stampa della Casa Bianca, Robert Gibbs, quando, mercoledì 28, gli è stato riferito di questo sondaggio.
La “defense bill” mostra quali siano le aspettative deluse. Le critiche dei conservatori (e le speranze dei suoi sostenitori) parlavano di un taglio delle spese militari da parte del presidente. Il quale ha invece proseguito il massiccio build-up (potenziamento) iniziato nell’era Bush. Il provvedimento da 680 miliardi sottoscritto da Obama include gli stanziamenti per le guerre in Iraq e in Afghanistan – il presidente George W. Bush aveva utilizzato un trucco contabile per tenere separate le due voci di spesa – ma anche il budget “di base” del Pentagono è maggiore.
“In termini reali, il build-up è ancor più grande che al suo culmine durante la presidenza Reagan” sostiene Lawrence Korb, del think-tank di indirizzo liberale Center for American Progress. Se Obama dovesse trovarsi nella necessità di chiedere altri fondi per l’Aghanistan, la spesa totale per l’anno fiscale 2010 eclisserebbe qualunque altra spesa militare dell’era Bush. Andrew Krepinevich del Center for Strategic and Budgetary Assessments l’ha definita “il segno della piena” in un crescendo di spese militari che, negli anni a venire, verrà a scontrarsi con i noti problemi di budget.
Ma in questa legge, i dettagli sono un problema maggiore della sua dimensione. Il Congresso e i produttori di armi hanno già forzato Obama a spendere 560 milioni di dollari per il nuovo motore, che il Pentagono non voleva, dell’F-35 Joint Strike Fighter. La “defense appropriation bill”, ossia il passo successivo nel processo di spesa, gli farà presumibilmente pagare altri 2 miliardi e mezzo di dollari per dieci nuovi aerei da trasporto C-17 che lui, Obama, non vuole, più altri 1,7 miliardi per un altro cacciatorpediniere DDG-51 di cui non ha bisogno.
Inoltre, le leggi di spesa militare hanno sconfessato in pieno il proclama obamiano di “farla finita con gli earmarks” (istituzione tipica della politica Usa, che permette a singoli congressisti di destinare a progetti specifici una parte dei fondi già stanziati dal governo. Per dare l’idea, si può pensare, in chiave italiana, ai famigerati emendamenti alla Finanziaria – n.d.t.). Secondo l’associazione indipendente Taxpayers for Common Sense, la versione del Senato della legge conta ben 778 earmarks, dal costo complessivo di 2,65 miliardi di dollari. La versione della Camera conta invece 1.080 earmarks, per un costo complessivo di 2,66 miliardi. Tutte queste spese vanno a detrimento dei fondi per l’armamento e l’addestramento delle truppe.
La lunga attesa del cambiamento non si limita al Pentagono. Sempre mercoledì 28, i funzionari della Casa Bianca si sono svegliati leggendo un articolo del Washington Times, basato su documenti prodotti dal Democratic National Committee, in cui si riferisce che Obama ha ricompensato coloro che lo hanno appoggiato economicamente con riunioni politiche, ricevimenti, partite a golf e a bowling. Non siamo ancora agli inviti di Bill Clinton a dormire nella stanza da letto di Lincoln, ma si tratta comunque di una storia che non si accorda bene con le promesse obamiane di una riforma del modo in cui si fanno gli affari a Washington.
“Crede forse il presidente che permettere ai suoi finanziatori di visitare la Casa Bianca sia nello spirito delle cose dette in campagna elettorale?”, hanno chiesto a Gibbs. “Versare un contributo al DNC non garantisce una visita alla Casa Bianca”, è stata la sua tutt’altro che adeguata risposta. Quando, un paio di ore dopo, Gates e Obama hanno preso posto nella East Room, entrambi hanno esortato ad avere pazienza sulla via del cambiamento. “Questa legge e questo budget sono solo l’inizio – ha promesso il segretario alla Difesa. – Il Pentagono non è qualcosa che si possa cambiare dall’oggi al domani”.
Obama ha ripreso l’argomento. “Cambiare la cultura di Washington richiederà tempo e un impegno prolungato”, ha detto. Però, ha aggiunto, “quando il segretario Gates ed io abbiamo proposto di mettere da parte alcuni progetti dispendiosi e inutili, c’era un sacco di gente in questa città che… era certa che saremmo stati travolti, perché, dicevano, ci sono interessi troppo profondamente radicati e Washington, semplicemente, è fatta in una certa maniera. Penso che sia importante osservare che, oggi, abbiamo dimostrato che si sbagliavano”. Non ancora, signor presidente. Ma continui a provarci.
Tratto da The Washington Post
Traduzione di Enrico De Simone