Il nuovo governo somalo e la sfida degli Shabaab
04 Dicembre 2010
A metà novembre il nuovo primo ministro del Governo federale di transizione (GFT), Mohamed Abdullahi Mohamed, ha finalmente sciolto la riserva sulla composizione del nuovo governo, che ora deve ottenere il voto di fiducia di un parlamento politicamente molto frammentato. Una prima analisi delle scelte del premier sembra confermare la sua volontà di rottura con l’esperienza dell’ex primo ministro Omar Abdirashid Ali Sharmarke, dimessosi il 21 settembre a causa dei forti contrasti con il presidente delle Istituzioni federali di transizione (IFT) Sheikh Sharif Sheikh Ahmed.
Il nuovo primo ministro dovrà intervenire su diverse questioni delicate, sia all’interno delle istituzioni che nel più ampio panorama politico del paese, sempre più diviso. A guidare il fronte della guerriglia antigovernativa c’è il movimento degli Shabaab, che diverse fonti mediatiche considerano legato ad al-Qaida. Anche questo gruppo, nato tra il 2003 e il 2004 come avanguardia militare dell’Unione delle Corti islamiche (UCI), sembra ultimamente soffrire di un processo di frammentazione interna, dovuto per lo più alle divergenze tra alcuni suoi leader sulle priorità politiche da perseguire.
Tappe forzate
La nomina del primo ministro Abdullahi Mohamed ha colto di sorpresa gran parte degli osservatori. Il suo nome infatti non era mai apparso nei dibattiti che ne avevano preceduto la consacrazione, lasciando in parte spiazzati sia gli altri Stati africani coinvolti nella crisi, come Etiopia, Uganda e Unione Africana, sia gli attori internazionali, come Stati Uniti, Unione Europea e Onu presente con un suo ufficio (United Nations Political Office for Somalia, Unpos).
Abdullahi Mohamed non è infatti un politico di professione, e per diversi anni è rimasto al di fuori delle dinamiche conflittuali che hanno caratterizzato la Somalia post 1991, anno dell’inizio della guerra civile. Dopo tre anni di servizio all’ambasciata somala a Washington, dal 1985 al 1988, con il crollo dello stato l’attuale premier preferì trattenersi negli Stati Uniti e intraprendere una carriera professionale all’interno dell’amministrazione di Buffalo, nello stato di New York, fino allo scorso 31 ottobre, quando il parlamento ha approvato ufficialmente la sua nomina.
Dalla rosa di nomi scelti dal primo ministro per comporre il nuovo esecutivo emergono diversi fattori di discontinuità rispetto al passato, a partire dal numero dei ministri: Mohamed Abdullahi ne ha nominati 18, mentre dal 2004, anno di formazione delle IFT, tutti i governi hanno avuto almeno 30 ministeri. La scelta di un esecutivo più snello nasce probabilmente anche dall’esigenza di dare una risposta alle accuse di corruzione e sperpero di risorse mosse ai governi precedenti non solo da alcuni ambienti dell’opposizione, ma anche da personalità interne alle stesse istituzioni somale. Non sarà facile tuttavia, per il governo, conquistarsi la fiducia di un parlamento che è tutt’altro che compatto.
Particolarmente critico nei confronti del nuovo premier è l’attuale speaker del parlamento, Sharif Hassan, che aveva avviato una campagna contro Abdullahi Mohamed. L’ostilità di Hassan nasce dagli attriti con il presidente Sheikh Sharif, principale sostenitore del nuovo premier. Per cercare di tamponare questo problema e ottenere il voto di fiducia da parte del parlamento, Abdullahi Mohamed ha provveduto a nominare una serie di viceministri vicini all’attuale speaker. Questi intrighi di palazzo hanno determinato un ulteriore indebolimento delle IFT, in un periodo particolarmente delicato non solo per gli sviluppi futuri del conflitto, ma anche per l’impegno di alcuni attori regionali come l’Uganda, che punta a un incremento del contingente militare dell’Unione Africana (African Union Mission for Somalia, Amisom) per assicurare la stabilizzazione del paese.
Minaccia globale?
La Somalia è ancora oggi un territorio diviso, composto da diverse realtà amministrative e politiche. L’ultimo rapporto del centro per l’analisi dei rischi globali Maplecroft pone il paese in cima alla lista degli stati a rischio terrorismo, seguito da Pakistan, Iraq e Afghanistan. Tra il giugno del 2009 e lo stesso mese del 2010 in Somalia sono stati eseguiti 556 attentati, che hanno causato il decesso di 1.437 persone, per lo più civili. L’epicentro dell’ondata terroristica resta la capitale Mogadiscio: qui le IFT controllano solo la zona adiacente all’aeroporto internazionale e il quartiere di Villa Somalia, sede del governo.
È da tempo che la Somalia e, in maniera più sfumata, la regione del Corno d’Africa vengono viste dagli osservatori internazionali come parte di un arco di crisi che comprende anche il vicino Yemen. Ad esprimere preoccupazione per la costituzione di un fronte globale jihadista che si avvantaggi o si serva di alcune realtà statali particolarmente deboli, è stata recentemente espressa da Jonathan Evans, direttore generale del servizio di sicurezza britannico. Secondo Evans, lo Yemen e la Somalia si trovano ad affrontare problemi analoghi: governi deboli e intrappolati nella morsa di gruppi di opposizione armata, proliferazione di attentati terroristici e gravi difficoltà economiche. Con larga parte del territorio inaccessibile alle forze governative, la Somalia potrebbe diventare una minaccia globale come luogo di rifugio e gestazione di cellule terroristiche pronte a colpire obiettivi esterni.
Le preoccupazioni britanniche e statunitensi appaiono fondate, ma è un fatto che l’inadeguatezza delle misure attuate dalla comunità internazionale è una delle ragioni della mancata stabilizzazione della Somalia. In particolare, la riduzione dello spazio di azione diplomatica si deve non solo all’intransigenza del movimento degli Shabaab, ma anche alle aperture al dialogo troppo timide da parte delle IFT e dal sostengo altrettanto blando che hanno ricevuto dai donatori occidentali.
Invertire la rotta
Il nuovo governo del premier Mohamed Abdullahi potrebbe provare a invertire la rotta, lavorando su un piano di stabilizzazione costruito insieme alle IFT, e non solo al servizio di queste. L’inclusione nell’esecutivo di Ahlu Sunna wal Jama’a, un movimento che combatte contro l’espansione degli Shabaab nella Somalia centrale, servirà a dare al nuovo governo un’immagine politicamente più inclusiva e rappresentativa.
Nonostante la fase promettente, la disillusione verso le IFT appare crescente a livello internazionale, soprattutto oltreoceano. Gli Stati Uniti potrebbero adottare nuovamente una strategia di contenimento verso la crisi somala, privilegiando misure volte a contrastare eventuali minacce alla sicurezza globale. Ciò accoglierebbe le istanze degli attori regionali, che premono per dare un maggior ruolo ad Amisom, e permetterebbe a Washington di disimpegnarsi gradualmente. L’Unione europea, dal canto suo, è di fronte ad un bivio: continuare a svolgere un ruolo meramente funzionale nell’ambito degli sforzi di gestione della crisi, contribuendo in particolare al contrasto alla pirateria, oppure impegnarsi in un’azione diplomatica più diretta e a vasto raggio.