Il nuovo Iraq chiede più laicità e sicurezza al vincitore Allawi
29 Marzo 2010
L’ex premier iracheno Iyyad Allawi ha vinto le elezioni politiche del 7 marzo scorso, superando per due soli seggi il rivale e primo ministro uscente, Nuri al Maliki. Faraj Haidari, presidente della Commissione elettorale irachena, durante la conferenza stampa che si è svolta sabato all’Hotel Rashid di Baghdad, ha annunciato che Iraqiva, la lista laica e interconfessionale guidata da Allawi, ha ottenuto 91 seggi contro la coalizione “State of Law”, guidata dallo sciita al Maliki. Allawi si è detto pronto a formare un governo che costruisca forti relazioni con i Paesi vicini e, intervistato dai giornalisti, ha dichiarato di essere aperto ad alleanze con tutti i partiti, cominciando proprio dal “blocco elettorale di al Maliki”. Obiettivo oggettivamente non facile, visto che nessuno dei due partiti principali si è guadagnato la maggioranza assoluta e già si prevedono negoziati lunghi e difficili per formare una nuova coalizione di governo. Ma soprattutto Allawi dovrà vedersela con le resistenze di al Maliki che fin da subito ha detto di non accettare i risultati, definendoli soltanto “preliminari”, e ha chiesto l’intervento della Corte Suprema irachena, l’unica in grado di confermare o invalidare il voto.
Al Maliki pare non arrendersi neppure davanti alle dichiarazioni del presidente Haidari che, sempre sabato scorso, ha tenuto a ribadire come la Commissione si sia adoperata in ogni modo, affinché “le elezioni si svolgessero nella massima trasparenza”. Né tantomeno l’ex premier si è lasciato scalfire dal politically correct di Allawy, per il quale “l’Iraq non appartiene ad alcun partito, ma a tutti gli iracheni”. E quando l’inviato delle Nazioni Unite a Baghdad, Ad Melkert, ha definito “credibili” le elezioni del 7 marzo, invitando tutte le parti ad accettarne i risultati, al Maliki non ha esitato a paventare l’ipotesi di una fusione con l’Alleanza Nazionale Irachena, che ha stretti rapporti col vicino Iran e raccoglie i principali partiti confessionali sciiti e i seguaci del leader radicale Moqtada al Sadr. Se il blocco di al Maliki riuscisse realmente ad unirsi con l’Alleanza, terzo partito per numero di seggi, entrambi ne avrebbero insieme 159, quasi la maggioranza assoluta di 163 deputati. Secondo alcune voci, però, il premier uscente potrebbe allearsi con la coalizione Kurdistania, formata dai due storici partiti curdi, Upk e Pdk, che ha ottenuto solo 43 seggi. Qualche giorno fa, infatti, al Maliki ha incontrato il presidente iracheno, Jalal Talabani, per sondare la possibilità di una fusione con i partiti curdi. Talabani, fra l’altro, aveva fin da subito appoggiato la richiesta di al Maliki di un riconteggio delle schede, nonostante lo scrutinio non fosse stato ancora completato, giustificandola con la necessità di “escludere ogni dubbio” sull’esito delle consultazioni.
Ma, dialettica politica a parte, queste elezioni ci hanno presentato un Iraq che è riuscito finalmente a superare una fase determinante per la sua crescita storica: i partiti confessionali sciiti sono in crisi, mentre hanno vinto le coalizioni di Maliki e Allawi, interconfessionali, aperte ai laici e ai sunniti. Iyyad Allawi, sciita e assolutamente laico, è stato primo ministro nei primi governi provvisori iracheni, dopo l’invasione americana che nel 2003 rovesciò la dittatura di Saddam Hussein. Nuri al Maliki, a sua volta, apparteneva ad una formazione, il Dawa, da sempre vicina al mondo iraniano, ma che si è distinta dal Khomeinismo sul punto centrale della “velayat e faiqih”, e cioè la concezione teocratica dello Stato che assegna al Giureconsulto poteri assoluti. Arrivato al governo, il premier uscente ha sciolto il Dawa, trasformandolo in una coalizione aperta ai sunniti, ai laici e persino ai cristiani, e conferendogli così l’impostazione di un moderno partito aconfessionale.
Dopo queste elezioni, l’Iraq chiede soltanto più sicurezza e normalità. Se è vero che per la prima volta i seggi elettorali sono stati difesi dalle sole truppe irachene – mentre nel 2005 c’erano schierati soldati americani, italiani, inglesi e degli altri Paesi alleati – non bisogna dimenticare che l’allarme terrorismo resta ancora molto alto. Il 7 marzo scorso non sono mancati attentati intimidatori: esplosioni in diverse città hanno accompagnato le elezioni, provocando almeno 40 morti e oltre cento feriti. Quasi venti giorni dopo, poche ore prima della diffusione dei risultati preliminari, un doppio attentato ha scosso la città di Khalis, a nord di Baghdad: 42 le vittime e 66 i feriti, secondo la polizia della provincia di Diyala. Ieri, un esponente politico della lista di Allawi è rimasto ucciso insieme ad altre cinque persone in un’esplosione davanti alla sua abitazione, nell’Iraq occidentale. La strada per Allawi non sarà facile, certamente non in discesa, perché questa volta il primo ministro dovrà occuparsi del sogno comune alla maggioranza dei suoi cittadini, e cioè poter vivere in un Paese sicuro e democratico. Se gli iracheni hanno sfidato gli attentati intimidatori pur di recarsi alle urne è perché ormai non considerano più la tranquillità come un’utopia, e sopra tutto perché hanno capito, come ha spiegato il collaboratore del New York Times Riyahd Mohammed, che il loro voto “davvero vale oro”.