Il nuovo romanzo di Waris Dirie: che significa nascere donne in Africa

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Il nuovo romanzo di Waris Dirie: che significa nascere donne in Africa

Il nuovo romanzo di Waris Dirie: che significa nascere donne in Africa

08 Agosto 2009

Waris Dirie è stata una delle modelle più famose e meglio pagate del mondo. Nel 1987 ha posato, insieme a Naomi Campbell, per il Calendario Pirelli. Poi ha abbandonato la professione per dedicarsi alla missione della sua vita: combattere contro le discriminazioni e le violenze istituzionalizzate subite dalle donne africane e in particolare contro le mutilazioni genitali femminili.

Waris Dirie è nata nel deserto da una famiglia di pastori, in Somalia, un paese dove quasi tutte le donne vengono escisse e circa l’80% infibulate. Lei stessa, dopo aver visto morire dissanguata una sorella maggiore in seguito a un intervento mal riuscito, è stata mutilata. Come per quasi tutte le bambine africane, l’operazione si è svolta senza anestesia: di solito chi taglia e asporta usa un qualsiasi strumento tagliente (può essere un coltello, un pezzo di latta o di vetro…) e poi per infibulare “cuce” con spine oppure accostando i lembi delle ferite in modo che guarendo si saldino; nel frattempo le donne, di famiglia o estranee, immobilizzano la piccola che si dibatte per il dolore e per la paura e cercano di tenerle le gambe ben divaricate. Il risultato è che, oltre alle lesioni inflitte deliberatamente, spesso se ne verificano di più gravi. Molte bambine muoiono di setticemia e di emorragia, sono frequenti le fratture degli arti tenuti fermi con la forza; per tutte dal quel momento inizia una vita di dolori e patologie a volte quasi insopportabili.

Waris è sopravvissuta, ma da allora non ha trascorso un giorno senza avere male. Era troppo piccola per ribellarsi alla mutilazione, ma quando a 13 anni ha saputo che il padre, in cambio di un compenso che la tradizione prevede e chiama “prezzo della sposa”, stava per darla in moglie a uno sconosciuto molto anziano non ha esitato a rischiare la morte per sottrarsi a quel matrimonio: è scappata di notte, nel deserto, riuscendo miracolosamente a raggiungere la capitale, Mogadiscio, e di lì, aiutata di nascosto da alcuni parenti, a partire per Londra dove l’attendevano uno zio, addetto all’ambasciata somala in Gran Bretagna, e, inaspettatamente, una folgorante carriera.

Dalla seconda metà degli anni ’90 Waris Dirie svolge un’intensa attività di sensibilizzazione sia come inviata delle Nazioni Unite sia in qualità di presidente della fondazione da lei creata e che porta il suo nome. Non si contano i convegni, i summit, le conferenze, le trasmissioni televisive sulle mutilazioni genitali femminili a cui ha partecipato. Inoltre ha scritto quattro libri, l’ultimo dei quali, Lettera a mia madre, è stato da poco pubblicato in Italia dalla casa editrice Garzanti. Si tratta della commovente cronaca di un rapporto madre-figlia compromesso dal danno irreparabile inflitto e subito: una madre che difende la tradizione e ne va fiera, una figlia che non riesce a superare l’angoscia di aver ricevuto proprio dalla persona che più ama e di cui più si fidava al mondo un dolore così grande.

Lo scenario che fa da sfondo al libro, così come a quelli precedenti, è la Somalia, dal 1991 devastata da una guerra tra clan. Tutti hanno sentito parlare delle decine di migliaia di morti che il conflitto ha causato finora e delle centinaia di migliaia di sfollati e di profughi che sopravvivono a stento grazie agli aiuti internazionali, minacciati dalle milizie antigovernative, dalla carestia e dalle epidemie, confinati, se hanno fortuna di raggiungerli, nei campi allestiti dalla comunità internazionale. Ogni giorno giungono nuove notizie dal fronte dei combattimenti e da quello delle organizzazioni umanitarie che tentano di soccorrere la popolazione civile. Nessuno parla mai, invece, di questo dramma nel dramma: le ulteriori sofferenze patite dalle donne a causa del perpetuarsi di una tradizione talmente sconvolgente da non trovare giustificazioni se non da parte di qualche antropologo sostenitore del relativismo culturale, ma che le donne stesse che la subirono da bambine continuano a imporre alle loro figlie pur conoscendo il destino di dolore al quale le condannano. Con l’escissione si asportano il clitoride e le piccole labbra dell’apparato genitale femminile esterno. L’infibulazione, oltre a ciò, ne comporta la quasi totale chiusura, tranne che per una apertura il più possibile piccola, tanto da lasciar defluire a mala pena e con estrema lentezza i liquidi organici.