Il Pakistan li abbandona e i talebani guardano sempre di più a Teheran
13 Marzo 2010
A circa quattro mesi dalla decisione del presidente Obama di inviare 30.000 truppe aggiuntive in Afghanistan, ed a poche settimane dall’avvio di una decisiva offensiva nella città di Marjah, roccaforte talebana nella provincia di Helmand nel sudovest dell’Afghanistan, la guerra potrebbe essere ad un punto di svolta. Non tanto, o non solo, per il successo che l’offensiva sta avendo nel paese degli aquiloni, quanto piuttosto per l’atteggiamento del vicino Pakistan che sembra avere finalmente deciso di cambiare strada e di abbandonare i talebani che aveva contribuito a creare tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90.
Il momento di svolta sembra essere il maggio 2009, quando i talebani (Tehrik-e-Taliban Pakistan – TTP) hanno occupato la valle di Swat e sono arrivati a minacciare la capitale e l’arsenale nucleare pakistano, sollevando forti preoccupazioni sulla possibile tenuta del fragile governo da poco insediatosi ad Islamabad. Da quel momento le forze armate pakistane hanno avviato una serie di controffensive che hanno consentito al governo di riprendere il controllo della valle di Swat e di insidiare i TTP nelle aree tribali (le cosiddette FATA, Federally Administered Tribal Areas) di Orakzai, Kurram, e Bajaur, ma anche nel Nord Waziristan ed in numerose province al confine nord ovest con l’Afghanistan.
Questo cambiamento è stato possibile anche perché la brutalità dei talebani impiegata per governare la valle di Swat gli è costata l’appoggio della popolazione che si è invece schierata con il governo centrale. Da allora si sono susseguiti una serie di successi, dalla riconquista del Buner district, all’uccisione di Beitullah Mashud, avvenuta in un attacco nell’agosto 2009, fino alle recenti catture di nove tra comandanti e governatori regionali, tutti membri della shura di Quetta, una sorta di “consiglio direttivo” dei talebani guidato dal mullah Omar in persona.
Il primo colpo messo a segno dalle forze armate pakistane il 26 gennaio è stata la cattura del mullah Mir Muhammad, governatore-ombra nella provincia di Baghlan, poi l’11 febbraio è stata la volta del mullah Abdul Salam, governatore-ombra nella provincia di Kunduz. Pochi giorni dopo, stessa sorte è toccata al mullah Abdul Ghani Baradar, capo militare dei talebani e numero due del mullah Omar, e dopo una settimana circa i pakistani hanno annunciato la cattura di Maulvi Abdul Kabir, governatore-ombra della provincia di Nangarhar.
Questi arresti vanno collegati alla cattura di altri importanti membri della shura di Quetta (non tutti però confermati da Islamabad): il mullah Abdul Qayyum Zakir, supervisore degli affari militari dei talebani, il mullah Muhammad Hassan, ex ministro degli Esteri del governo talebano, il mullah Abdul Rauf, capo delle operazioni nel nord-est dell’Afghanistan, il mullah Ahmad Jan Akhundzada, ex governatore nella provincia di Zabul. Ciò dimostra come l’arresto di Baradar (il più importante tra quelli citati) “non rappresenta un caso isolato, un ‘incidente’ ma un punto di svolta della politica pakistana nei confronti dei talebani”, come ha spiegato al New York Times Bruce Riedel, ex ufficiale della CIA e senior fellow alla Brookings Institution.
Evidentemente il governo di Islamabad ha finalmente compreso l’entità della minaccia rappresentata dai talebani anche per la stabilità del Pakistan. Non a caso, in un recente articolo sul Guardian, il presidente Asif Ali Zardari ha scritto che “i terroristi non vogliono che il Pakistan si risollevi, essi vogliono distrarci dal nostro cammino verso un futuro stabile e prospero”, aggiungendo infine: “Stiamo combattendo per la nostra vita, e quelli che sperano che il Pakistan rimanga fuori dalla lotta hanno fatto male i propri conti”. Le parole di Zardari ed i risultati di questi mesi fanno ben sperare sulla reale volontà del governo di Islamabad di cambiare strada, e, come nota ancora Riedel, “non resta che aspettare e vedere se questo trend durerà, ma per Obama e la NATO questa sembra essere la migliore delle notizie possibili, perché senza i loro rifugi sicuri oltre confine i talebani sono in grossi guai”.
Non c’è dubbio infatti che la guerra in Afghanistan potrà essere vinta solo quando le forze armate ed i servizi segreti di Islamabad smetteranno di fornire protezione ai talebani, ed in questo senso l’offensiva pakistana è giunta nel momento migliore quando, cioè, gli alleati hanno lanciato la campagna di Marjah, nel primo vero test del surge deciso a dicembre dal presidente Obama. Anche perché con i suoi successi il Pakistan contribuisce a rafforzare la strategia americana, incoraggiando molte tribù ad abbandonare i talebani e collaborare con le forze alleate ed il governo Karzai, sull’esempio di quanto avvenuto in Iraq dove il coinvolgimento dei gruppi sunniti nella lotta contro al-Qaeda è stata una delle chiavi per il successo.
Ma a contribuire all’apparente cambiamento di strategia di Islamabad non hanno concorso solo le pressioni di Washington, ma anche, e soprattutto, quelle di Riyadh. Come rileva Amir Mir, in un interessante articolo su The News, “l’influenza della famiglia reale saudita, insieme alle pressioni americane, hanno spinto i vertici dei servizi segreti pakistani ad abbandonare i talebani”. Particolarmente importante è stato il ruolo del principe Muqrin bin Abdulaziz, capo del General Intelligence Presidency, il servizio segreto saudita. “Muqrin ha condotto una continua azione diplomatica tra i due paesi, condividendo informazioni chiave che hanno incoraggiato il Pakistan a procedere contro la leadership dei talebani”.
Il cerchio dunque si sta stringendo intorno a Mullah Omar, ma per un alleato che va ce n’è, purtroppo, uno che rimane in suo soccorso. Si fa sempre più evidente, infatti, il ruolo ambiguo dell’Iran nel teatro afgano. Proprio nei giorni scorsi il ministro della Difesa americano, Robert Gates, ha denunciato il “doppio gioco” di Teheran in Afghanistan, dove Teheran se da un lato finge di interessarsi al rafforzamento del governo Karzai, dall’altro continua ad aiutare i talebani fornendo armi, tecnologia e sostegno logistico attraverso il suo poroso confine. E la situazione deve essere veramente insostenibile se persino una “colomba” come Gates si è spinto a minacciare “una reazione di quelle che nemmeno si immaginano”, parole particolarmente dure dovute ai continui report giunti dal campo che dimostrano come i talebani si servano di armi sempre più sofisticate di provenienza iraniana.