Il Pakistan non poteva non sapere di Osama Bin Laden
10 Maggio 2011
Osama bin Laden è morto nella Notte di Valpurga, la notte dei balli sabbatici e dei grandi falò. Il Capo delle Streghe ha scelto il momento giusto per cadere dalla scopa e restare ucciso in una violenta sparatoria. Uno dei commenti più letti su Facebook dopo la notizia è stato “Ding, Dong, la strega è morta”; e si avvertiva qualcosa di fiabesco nella folla che cantava “U-S-A!” nella notte, davanti alla Casa Bianca, a Ground Zero e in tanti altri luoghi. Quasi dieci anni dopo l’orrore dell’11/9, la lunga caccia all’uomo è arrivata alla preda e gli americani questa mattina si sentiranno meno impotenti e più lieti, perché il messaggio che arriva da quella morte è: “Attaccateci e vi daremo la caccia. Non ci scapperete”.
Molti di noi non hanno mai pensato a bin Laden come a un povero vecchio costretto a nascondersi sulle montagne, cibarsi di piante e insetti e dormire in un’inospitale caverna in qualche punto lungo il permeabilissimo confine tra Pakistan e Afghanistan. Un uomo così alto – 195 centimetri, in un paese dove l’altezza media di un uomo è 1,76 metri – che se ne andava in giro senza essere notato mentre la metà dei satelliti in orbita attorno alla Terra lo stavano cercando? Non ha senso. Bin Laden è nato ricco ed è morto in una casa da ricchi, da lui stesso fatta erigere secondo scrupolose specifiche. Il governo americano si è detto “scioccato” dall’accuratezza costruttiva di quel complesso.
Abbiamo sentito – io di sicuro, me l’ha detto più di un giornalista pakistano – che il Mullah Omar era (è) al sicuro in una casa che si trova da qualche parte nei pressi di Quetta, nel Belucistan, che è tenuta sotto controllo da parte del potente servizio segreto pachistano; è probabile che anche bin Laden volesse prendere una casa nelle vicinanze. Dopo il raid di Abbottabad, le grandi domande sono tutte per il Pakistan. Le solite manfrine (“Chi, noi? Non ne sapevamo nulla!”) questa volta non bastano, soprattutto non si deve permettere che bastino agli Stati Uniti, che hanno insistito nel trattate il Pakistan come un alleato anche molto tempo dopo essere venuti a conoscenza del suo doppio gioco – si può citare il sostegno pachistano al gruppo Haqqani, responsabile della morte di centinaia di americani in Afghanistan.
Questa volta i fatti gridano troppo forte per poter essere zittiti. Osama bin Laden, l’uomo più ricercato del mondo, viveva alla fine di una strada polverosa a poche centinaia di metri dall’accademia militare di Abbottabad, l’equivalente pakistano di West Point o Sandhurst, in una cittadina dove c’è un militare a ogni angolo della strada, che dista appena ottanta chilometri da Islamabad. Il suo grande caseggiato non aveva né una linea telefonica né una connessione internet. E a dispetto di tutto ciò dovremmo credere che il Pakistan non sapeva che Obama stava lì, e/o che le autorità civili e/o militari non lo aiutassero in alcun modo durante la sua permanenza ad Abbottabad mentre guidava al Qaeda, con portaordini che andavano e venivano, per ben cinque anni?
La vicina del Pakistan, l’India, duramente colpita dagli attacchi terroristici del 26 novembre 2008, è già partita con le domande. Per quel che riguarda i gruppi jihadisti anti-indiani — Lashkar-e-Taiba, Jaish-e-Muhammad — il sostegno del Pakistan, la sua volontà di fornir loro rifugi sicuri, il suo incoraggiamento a loro e a gruppi simili per portare la guerra nel Kashmir e, ovviamente, a Mumbai; ebbene, tutto questo è assodato. Negli ultimi anni questi gruppi sono entrati in contatto con i cosiddetti talebani pachistani per formare nuovi network della violenza, e vale la pena osservare che le prime minacce di rappresaglia per la morte di bin Laden sono arrivate dai talebani pachistani, non da un portavoce di al Qaeda.
E’ l’India, l’ossessione malata del Pakistan, la ragione al fondo del doppio gioco. Il Pakistan è in allarme per la crescente influenza indiana in Afghanistan, e teme che un Afghanistan ripulito dai talebani diventi uno stato subordinato all’India, venendo così a chiuderlo in una morsa tra due nazioni ostili. Mai sottovalutare la paranoia pachistana sugli immaginari machiavellismi indiani. E’ da lungo tempo che l’America tollera il doppio gioco pachistano, ben sapendo che le è indispensabile il sostegno del Pakistan per portare avanti la missione in Afghanistan, e sperando che i capi di quel paese prima o poi capiscano che stanno sbagliando i calcoli, e di molto: il primo obiettivo dei jihadisti è spodestarli. Il Pakistan, con il suo arsenale nucleare, è un premio assai più ricco del povero Afghanistan, e i generali e gli spioni che oggi spalleggiano per al Qaeda potrebbero, nel peggiore degli scenari, diventare domani le vittime dei terroristi. Purtroppo, non arriva alcun segno di resipiscenza dalla classe dirigente pachistana. Il compound di Obama dimostra una volta di più la follia di quel paese.
Il mondo si prepara a sostenere la risposta del terrorismo alla morte del suo leader; dovrebbe anche trovare il modo di chiedere al Pakistan risposte esaustive alle domande, molto dure, che adesso gli devono essere rivolte. Qualora quelle risposte non arrivassero, forse è giunto il momento di dichiararlo “stato terrorista”, ed espellerlo dalla comunità delle nazioni.
Tratto da The Daily Beast
Traduzione di Enrico De Simone