Il paradosso dell’Africa è che più aumentano gli aiuti più sale la povertà
10 Luglio 2009
di Anna Bono
Bob Geldof e compagni si potevano risparmiare le accuse ai G8 e gli insulti all’Italia – “Vergogna, Italia. Il tuo governo ti disonora” – perché, come era stato annunciato, i paesi più industrializzati del mondo hanno confermato a L’Aquila gli impegni finanziari assunti negli anni scorsi nei confronti dei paesi poveri, incluso l’azzeramento progressivo del debito estero contratto con i maggiori istituti di credito internazionali dai 27 governi più indebitati, promesso al G8 di Gleneagles nel 2005. Inoltre, su sollecitazione USA, è stato lanciato per il prossimo triennio un ulteriore programma di aiuti dedicato alla sicurezza alimentare che potrà contare su un capitale iniziale di 15 miliardi di dollari.
Per quel che riguarda l’Italia, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha assicurato di saldare entro un mese il contributo italiano di 130 milioni di dollari destinati al Global Found Africa, a cui ne saranno aggiunti altri 30. Il Ministro delle Finanze Giulio Tremonti inoltre ha illustrato una nuova iniziativa: la D-tax, grazie alla quale una percentuale dell’IVA sui beni venduti negli esercizi commerciali aderenti all’iniziativa potrà essere devoluta a organizzazioni non governative operanti in Africa.
Al di là delle cifre, interessano le strategie per far fruttare le cospicue cifre stanziate. Il G8, destinato a diventare in modo permanente un G14 con l’inclusione degli stati emergenti, fonda il proprio programma di lotta alla povertà innanzi tutto sul sostegno alle attività agricole, urgente specialmente in Africa dove le leadership politiche, dopo le indipendenze, invece di valorizzare il settore agricolo, lo hanno sfruttato senza ritegno con strumenti quali le casse di commercializzazione del prezzi, inducendo milioni di contadini ad abbandonare la produzione per il mercato.
Un secondo punto importante è l’impegno a concludere entro il 2010 dei negoziati di Doha per la liberalizzazione dei mercati che prevede tra l’altro l’abbattimento delle barriere doganali da parte dei paesi industrializzati sui prodotti agricoli provenienti dai paesi poveri. Anche in questo caso, l’attenzione si concentra sull’Africa: molti governi di quel continente infatti da due anni rifiutano di firmare gli accordi di Doha perché respingono il principio di reciprocità dal momento che le tasse doganali astronomiche da loro imposte sui beni importati costituiscono una consistente voce dei loro bilanci statali alla quale non sono disposti a rinunciare.
Una novità davvero positiva è la forza con cui è stata sottolineata la necessità che i destinatari degli aiuti forniscano finalmente reali garanzie istituzionali di un uso corretto dei fondi messi a loro disposizione. Ma è proprio questo il punto debole del programma varato: tutti sanno che malgoverno e corruzione sono i primi nemici dello sviluppo, però manca un’idea su come indurre i governi responsabili della povertà dei loro connazionali a cambiare rotta.
Il paradosso è che più aumentano le risorse e maggiore è la povertà: basta considerare il caso della Nigeria, per decenni il maggiore produttore di petrolio dell’Africa subsahariana (nel 2008 scavalcato dall’Angola) e dove tuttavia il 70% della popolazione tuttora vive con meno di un dollaro al giorno e il 92,8% con meno di due.
Gli stessi aiuti allo sviluppo, così stando le cose, diventano parte del problema. Lo ribadisce con il consueto vigore nel suo ultimo saggio intitolato Dead aid: why aid is not working and how there is e better way for Africa, l’ormai celebre, ma tuttavia inascoltata economista zambiana Dambisa Moyo. Il sostegno pubblico internazionale allo sviluppo finora è stato un fallimento, sostiene Moyo: “distrugge ogni slancio alle riforme, allo sviluppo, alla capacità di creare ricchezza nazionale e di esportarla. Alimenta la corruzione e i conflitti interni e favorisce il mantenimento di regimi pluriennali”.
È difficile darle torto. Dalle indipendenze a oggi l’Africa ha ricevuto oltre 1.000 miliardi di dollari in aiuti, erogati a vario titolo; eppure tra il 1970 e il 1998, periodo in cui ha ricevuto i maggiori contributi dall’estero, la povertà è salita dall’11% al 66%. Casi esemplari sono il Burundi e il Burkina Faso, attualmente due degli stati più poveri del mondo: 30 anni fa – ricorda Moyo – il loro PIL pro capite era superiore a quello della Cina.