Il partito di Fini nasce tra la guerra dei nuovi colonnelli e quella con Casini

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Il partito di Fini nasce tra la guerra dei nuovi colonnelli e quella con Casini

Il partito di Fini nasce tra la guerra dei nuovi colonnelli e quella con Casini

13 Febbraio 2011

Mi dimetto se si dimette Berlusconi, federalismo ma solidale riforma elettorale e poi al voto, il Pdl è un progetto fallito, il nuovo centrodestra sono io. In sequenza il Fini-pensiero al battesimo di Futuro e Libertà. In mezzo accuse al premier e a Bossi. E per finire la ‘grana’ della segreteria che esplode ancora prima di tirare giù la saracinesca della costituente futurista, con buona parte del partito appena nato e già in preda a maldipancia. Solo a tarda sera esce la nomina di Bocchino vicepresidente, Della Vedova al timone del gruppo alla Camera (imposto da Fini su Urso che ci puntava)  dopo un pomeriggio di  ‘guerra’ tra i nuovi colonnelli.

La tre-giorni futurista al di là degli effetti speciali del palco con le colline verdi o le frasi tratte dai capolavori di Lucio Battisti a far da battistrada cultural-identitario, consegna alle cronache politiche più di un elemento di riflessione: sulla svolta, anzi le svolte di Fini negli ultimi due anni. Dalla fondazione del Pdl allo strappo col Cav., allo start-up di Bastia Umbra, alle sfiduce in sequenza perse in parlamento, alla virata sulla scia di Casini. E per chi come i militanti futuristi, specie quelli sul territorio, ha lasciato la nave pidiellina e con essa una poltrona sicura sulla tolda di comando, oggi non è facile stare a Milano e pensare che il seme che Fini vuole lanciare per coltivare e far nascere una nuova primavera per l’Italia, sia per davvero la scelta giusta, la direzione che ancora si può intraprendere, il progetto al quale poter dare ancora un contributo convinto.

Perché in quattro mesi, da Bastia umbra ad oggi, di acqua sotto il ponte futurista ne è passata molta ed oggi la sensazione che pure a Milano era percettibile, è che questo partito ancora prima di prendere il largo in mare aperto, abbia già perso la sua spinta propulsiva, impantanato nelle reti di tatticismi che si sono rivelati errori clamorosi e strategici. Uno su tutti: la sfiducia al governo il 14 dicembre che evidentemente ha pesato come un macigno sul destino di Fli, al punto da segnare una prima frattura interna con l’uscita di Moffa  ed altre colombe finiane (Polidori e Siliquini) contrarie alla linea oltranzista e anti-Cav. a prescindere, portata avanti da Bocchino e Granata e mai sconfessata o corretta da Fini.

Un passaggio significativo nel percorso futurista che il leader non ha saputo interpretare come un campanello d’allarme sul rischio di seguire una rotta sbagliata rispetto al come e al perché era stata pensata la svolta di Bastia Umbra. Poi le altre forzature, in asse con Bersani e Casini (sfiducia individuale a Calderoli e Bondi, l’attacco a Frattini) , per non parlare del nodo mai risolto dell’incompatibilità tra il ruolo di presidente della Camera e di leader di un partito che ha fatto la scissione dal Pdl e poi si è collocato all’opposizione della stessa maggioranza nella quale i finiani erano stati eletti col mandato popolare a governare.

A sentire parlare oggi Fini del governo, del premier, del Pdl sembrava di assistere al comizio di Bersani. Di tutto questo, dentro Fli si ha contezza e su tutto questo molti esponenti, specie tra i senatori che finora hanno tenuto una linea opposta a quella di Bocchino e Granata, c’è malumore e delusione. Le stesse sensazioni palesate sulla corsa per la guida di Fli. Nodo risolto, forse, solo a tarda sera quando esce il comunicato ufficiale sulla composizione dell’ufficio di presidenza, frutto della decisione che ha dovuto prendere lo stesso Fini per stoppare la “guerra” tra colonnelli andata avanti per tutto il giorno. Bocchino la spunta sulla vicepresidenza ma il capo impone Della Vedova alla guida del gruppo di Montecitorio sul nome di Urso al quale è stato offerto il ruolo di portavoce del partito. Menia sarà il coordinatore della segreteria e Ronchi presidente dell’assemblea nazionale. Ma è facile pensare che una decisione del genere, coi moderati (tra questi il presidente dei senatori Viespoli) fortemente contrari alla nomina di Bocchino, porterà con sé conseguenze negli equilibri interni del partito.  

A Milano Fini ha tentato di ridare la carica ai suoi, insistendo sul tema dell’identità e dei valori della destra e tuttavia senza indicare una strategia che vada oltre il solito cliché: prima cacciamo Berlusconi. E se la proposta che esce dalla costituente futurista è quella del ‘dimettiamoci entrambi e andiamo a votare’, si capisce bene che così di futuro Fli ne costruisce poco. Una sfida nata già morta come del resto sa perfettamente Fini e proprio per questo è difficile comprenderne il senso. “Berlusconi è premier anche grazie ai milioni di voti che venivano dall’accordo politico che An fece con Fi. Allo stesso modo – ha dichiarato dal palco – io sono diventato presidente della Camera grazie ai voti dei parlamentari eletti che i voti di Forza Italia. Faccio una proposta: io sono disposto a lasciare la presidenza della Camera se il presidente del Consiglio è disposto a dimettersi per tornare a chiedere l’opinione degli elettori, per tornare al voto popolare. Ma non illudiamoci, Berlusconi non lascerà la sua poltrona. Troverà sempre qualche ‘disponibile’ per andare avanti. Questo e’ il suo intendimento”.

Ma che proposta è, se non l’ennesima provocazione o forse un modo per ribadire che lui non lascerà lo scranno più alto di Montecitorio dal momento che il Cav. non lascerà quello di Palazzo Chigi. Una non proposta, un esercizio retorico col quale probabilmente tornare a chiedere la testa di Berlusconi. Due i motivi dell’incongruenza del ragionamento. Il primo: non può subordinare le sue dimissioni a quelle del premier perché fu lui, a settembre ad annunciare in un videomessaggio sul sito di Generazione Italia che se dal dossier Montecarlo fosse emerso che la casa era riconducibile al cognato, lui avrebbe lasciato il ruolo di terza carica dello Stato. Sono arrivate le carte da Santa Lucia, ma Fini è ancora al suo posto. Secondo: a Milano ha parlato da leader di un partito che nasce con l’incognita e le polemiche sul coordinamento. E non basta l’ausospensione da presidente eletto per acclamazione dal suo popolo a sanare l’ambiguità del doppio ruolo, a maggior ragione dal momento che la decisione su chi deve guidare Fli è stata rimessa nelle sue mani, dunque confermando il suo ruolo attivo e primario di leader del partito.

Ma c’è un altro motivo che rischia di ipotecare il progetto futurista: se tutto il male del mondo è Berlusconi che per questo si deve fare da parte e se la via tracciata da Fini da qui a un anno è cambiare la legge elettorale e fare un federalismo “solidale” (non quello di Bossi e Calderoli) con la nascita del Senato delle Regioni, per poi andare al voto nella primavera del 2012 (l’offerta è una sorta di via d’uscita concordata) si comprende come l’unico e reale obiettivo resta sempre il solito sul quale battono da settimane Casini e Bersani cavalcando l’onda giustizialista e moralista del Rubygate. Linea peraltro confermata oggi dalla presenza di Giulia Bongiorno alla kermesse delle novelle paladine della dignità delle donne (a Roma) e di Flavia Perina alla manifestazione-gemella di Milano.

Viene da domandarsi: ma in tutto questo dove sta la politica? Dove sta l’orizzonte del nuovo centrodestra plurale, moderno, europeo se poi l’architrave dell’idea futurista è che  “la sovranità popolare non significa impunità, non significa infischiarsene della Costituzione, non significa essere al di sopra della legge” e che con il caso Ruby “siamo diventati lo zimbello di tutto l’Occidente e non solo dell’Occidente”?

Ambire a inaugurare una nuova stagione politica non può reggersi sulla demolizione strumentale e demagogica di due anni di governo e di cose fatte anche col contributo (allora convinto) dei finiani, tantomeno puntare l’indice contro un parlamento paralizzato, né dipingere la classe dirigente del Pdl come asservita agli interessi del premier. Concetto che i capigruppo di Senato e Camera (Gasparri, Quagliariello, Cicchitto e Corsaro) rispediscono al mittente quando sostengono l’esatto contrario, pur non nascondendo una situazione di difficoltà ma che non può certo essere lo strumento per dire via il Cav. e tutti i suoi sodali, perché significherebbe calpestare la sovranità popolare che si esplica attraverso un governo nel pieno delle sue funzioni e con una maggioranza parlamentare consolidata.

No, il parlamento non è bloccato e pure in questo periodo “ha continuato a lavorare nell’interesse del Paese. Situazione ben diversa, da quella che si determinò quando in Senato il governo Prodi si reggeva sul solo voto dei senatori a vita e per questo era portata a scongiurare il più possibile la verifica del voto d’aula” ribadiscono i capigruppo del Pdl  ricordando il varo della legge di stabilità, la riforma dell’università, il decreto sui rifiuti in Campania, la legge comunitaria, e adesso la discussione in corso sul “mille proroghe con un metodo rigoroso non solo rispetto ai vincoli di bilancio, ma anche, a differenza di quanto accadeva in passato, rispetto alla pertinenza delle misure introdotte. Infine, il Parlamento si appresta a dire la sua sul rinnovo delle missioni militari e su un importante decreto attuativo del federalismo fiscale, una riforma epocale”, spiegano i quattro esponenti del Pdl.

Situazione nella quale “non alimentare tensioni e conflitti significa incoraggiare il governo e la maggioranza ad andare avanti e ad operare con determinazione, soprattutto al cospetto di crisi internazionali che si riverberano pesantemente sul Paese come dimostra ciò che in queste ore sta avvenendo sulle coste di Lampedusa”. Insomma, il concetto è che “alimentare il senso di confusione tra i poteri dello Stato rischia, magari come conseguenza non voluta, di aggravare le difficoltà piuttosto che contribuire alla loro soluzione”. La situazione non è facile, osservano i vertici dei gruppi parlamentari, ma a determinarla è stata “anzitutto l’azione di opposizioni vecchie e nuove che vorrebbero trarre vantaggio da una minoranza di magistrati i quali, operando in contrasto col dettato e lo spirito della Costituzione e con le leggi che regolano l’esercizio della giurisdizione a garanzia di ogni cittadino, rischiano di mettere in dubbio il verdetto della sovranità del popolo, fondamento di ogni democrazia liberale”.

E’ da qui che Gasparri, Quagliariello, Cicchitto e Corsaro insistono nel dire che il rispetto delle istituzioni richiede a ciascuno di fare la propria parte “evitando la confusione tra ruoli istituzionali di garanzia e ruoli di partito, in una situazione nella quale il presidente della Camera si trova a svolgere il doppio ruolo di alta carica istituzionale e leader di un partito da lui stesso fondato. Circostanza che anche oggi, non lo indirizza certo verso la sobrietà di toni e comportamenti opportunamente richiamata dal presidente della Repubblica, fino al punto di reiterare lo spettacolo inaudito di un presidente della Camera che chiede le dimissioni del presidente del Consiglio”.

La prospettiva finiana è quella del “polo degli italiani” (definizione che preferisce al terzo polo) ma chi da Milano si aspettava un’indicazione più chiara sulle alleanze, è rimasto a bocca asciutta. E sul tavolo del polo che verrà resta la questione di fondo – pure questa irrisolta – della leadership: Casini se la intesta, Fini la rivendica. Partita a due, che annuncia nuovi “duelli” terzopolisti. Tutta un’altra storia rispetto al disegno tratteggiato per Fini dagli intellettuali finiani Alessandro Campi e Sofia Ventura. Che per questo, oggi, sono già in rotta di collisione con la nave e del capo.