Il partito di Veltroni: senza correnti e con molte fazioni
17 Ottobre 2007
“Il Partito democratico
non sarà attraversato da correnti”. La promessa, firmata Walter Veltroni e
pronunciata per la prima volta a settembre a Genova, è la nuova parola
d’ordine, l’impegno solenne rilanciato con solennità nelle ore immediatamente
successive il plebiscito di domenica scorsa, il timbro che il neo-segretario
vorrebbe apporre a fuoco sulla nuova creatura politica. Il desiderio è
evidente: di fronte a un voto che ha sì acceso una grande mobilitazione
popolare ma anche messo in moto le macchine degli apparati e ha fischiato
l’inizio di una grande partita di potere meglio ricordare a tutti%2C e
soprattutto ai furbi notabili locali già intenti ad affilare le unghie, chi è
che comanda.
Naturalmente il “wishful
thinking” veltroniano scricchiola rumorosamente e non potrà che finire per
scontrarsi con la realtà, visto che le molte anime del Partito Democratico
inizieranno a manifestarsi all’interno della Assemblea Costituente. La mappa
correntizia, in realtà, è ancora in via di definizione. Dal magma mobile e
ribollente della nuova creatura emerge, innanzitutto, il partito prodiano,
impersonificato da Rosy Bindi e Arturo Parisi. Un partito nel partito,
agguerrito e combattivo, che vuole a tutti i costi ritagliarsi un ruolo. Più
defilata, ma non per questo meno decisa a far sentire la propria voce, la
mini-corrente che fa capo al popolarismo di Franco Marini e Ciriaco De Mita.
Così come non va dimenticata la componente dei “coraggiosi”, ovvero dei
rutelliani che alcuni danno al 10%. Enrico Letta, invece, resta a mezza strada,
assumendo una posizione che rifiuta i compromessi con la sinistra radicale ma è
anche pronta a contestare il blocco di potere veltroniano.
Il sindaco di Roma, quindi,
dovrà mediare non solo nella sua area ma anche con le altre anime, in primis
con quella prodiana. Una missione non facile visto che il primo messaggio del
nuovo leader non è stato precisamente una dichiarazione di pace. “Ci sarà una
dialettica fisiologica con il governo. Il Pd seguirà il suo programma”. Come
dire che Veltroni non si adeguerà passivamente all’agenda di governo e non si
farà logorare dalla paralisi della maggioranza.
Incognite si agitano anche
sul posizionamento reale del partito. Il voto di domenica, infatti, ha
riservato alcune sorprese. La prima riguarda l’affluenza rivelatasi inferiore a
quella delle primarie che incoronarono Romano Prodi candidato per Palazzo
Chigi. E questo nonostante il lavorio degli apparati e dei singoli portatori di
voti, rimasti a braccia conserte in occasione della consultazione dell’ottobre
2005. La seconda sorpresa riguarda la mappa dei vincitori e dei vinti. Alla
vigilia, nel borsino della geografia politica del Pd, nessuno avrebbe
immaginato che tra i vincitori sarebbe finiti “scettici doc” come Vincenzo Vita
e Massimo Brutti. Così come altrettanto assurdo sarebbe stato pronosticare in
discesa “demo-entusiasti” come Giovanna Melandri e Sergio Chiamparino. E invece
a scompaginare i piani ci ha pensato la lista “A sinistra per Veltroni” che,
nei 189 collegi in cui era presente ha ottenuto una media del 20%. Con alcuni
exploit: nel collegio di Roma Centro “l’avvocatessa del cinema”, Giovanna Cau,
affiliata a questa lista, è riuscita a sbaragliare la bionda ministra dello
Sport (la cui “Lista 2”
è franata alla prova del voto, con il rischio di far rimanere senza seggio big
come Tiziano Treu e Giuliano Santagata). Così come a Fuorigrotta la lista
Brutti-Vita ha ottenuto il 40% contro il 28% dell’accoppiata De Mita-Bassolino.
Risultati che rendono evidente quanta voglia di sinistra ci sia tra gli
elettori provenienti dall’ex Pci, poco incline a indossare il nuovo abito
liberal-cattolico-socialista. Brutti e Vita, peraltro, promettono subito nuove
grane, visto che hanno già annunciato che “il Pd dovrà stare nel Partito
Socialista Europeo”, riaprendo una diatriba antica e mai davvero risolta.
L’elenco di vincitori e vinti
riserva parecchie sorprese. Fuori, come detto, ministri prodiani e ulivisti
della prima ora come Santagata e De Castro. Fuori, ma con chances di recupero
il vice ministro dell’Economia, Vincenzo Visco. A Napoli, non ce la fa il
presidente della commissione Esteri della Camera, Umberto Ranieri. Mentre il
governatore Bassolino viene eletto, ma a fatica. Il sindaco Rosa Russo
Iervolino la spunta ma nel suo collegio di San Giovanni a Teduccio incassa il
record negativo di votanti: 1.300. Tutti promossi i ministri
“veltroniani” Melandri e Gentiloni (a Roma), Pollastrini e
Lanzillotta (a Milano), Massimo D’Alema fa boom al collegio 20 di Bari. Eletto
anche il senatore suo fedelissimo Nicola Latorre. Nel Lazio entra senza
difficoltà in assemblea Anna Finocchiaro. E così il sindaco di Genova Marta
Vincenzi e il governatore Claudio Burlando, il presidente della Provincia di
Milano Filippo Penati. Tra i candidati alle segreterie regionali, vincono sul
velluto, passeggiando su vagonate di voti, il viceministro Marco Minniti in
Calabria e il sindaco Michele Emiliano in Puglia.
Ci sono poi i risultati delle
regioni con i Ds che ne incamerano tredici e la
Margherita che ne ottiene sei, con un duello all’ultimo voto in
Sardegna e Piemonte. Chiuso il capitolo primarie, ora inizierà il cammino vero
e proprio di formazione del nuovo partito. La prima seduta dell’assemblea si
terrà sabato 27 ottobre a Milano. Un segnale al Nord del Paese al quale Veltroni
teneva in modo particolare e sul quale Prodi opponeva qualche resistenza.
Seguiranno sedute itineranti dedicate alla stesura dello statuto e al
“manifesto delle idee”. Ai 2.400 componenti si aggiungeranno altri
2-300, eletti col “premio” che scatterà grazie al record di
affluenza. Un’ammucchiata che dovrà farsi carico di dare un’anima al nuovo
partito. Perché se domenica è stato chiaro per chi si è andati a votare, non
altrettanto lo è stato per cosa.