Il passato dimenticato del Tibet tra feudalesimo e teocrazia
06 Gennaio 2009
Se all’animo di chiunque appare consolatorio immaginare un luogo – un non-luogo – idilliaco abitato da monaci intenti esclusivamente a esercizi spirituali avulsi da ogni pratica mondana, depositari di antiche sapienze, la realtà è ben diversa, come sempre purtroppo accade. E il fatto che tale paese sia così impervio e lontano da qualsiasi altra nazione civile non fa che alimentarne il fascino remoto. Che poi si sia giustapposto l’ideale religioso buddista alla storicità concreta delle genti tibetane nei secoli, rende ancora più ridicolo l’assunto – come se immaginando la carità cristiana dei Vangeli se ne deducesse la totale pietas e misericordia del mondo occidentale nella sua storia.
In Tibet non sono vissuti e non vivono santi pacifici custodi di elevati e pii segreti. In Tibet vivono e hanno vissuto uomini in carne e ossa reduci da un passato per nulla edificante, le cui semplici vesti da monaci non possono nascondere tragedie e misfatti al pari di qualsiasi cronaca storica di un popolo.
Che oggi ci si accapigli in strada, mostrando indignazione in pubblico per difendere le pretese tibetane verso la crudelissima Cina, rientra in quel moderno gioco delle parti in cui apparire impegnati intellettualmente ed eticamente significa poter sventolare una qualsiasi bandiera di un qualsiasi gruppo che si dichiari oppresso, senza minimamente curarsi di approfondirne le eventuali ragioni, torti e responsabilità. Ciò che conta è seguire la moda radical-chic di crearsi sempre un nemico facile e ben identificabile. Lo fece la bella Jane Fonda negli Anni Settanta facendosi fotografare con i Vietcong, salvo poi chiedere scusa al popolo americano vent’anni e centinaia di migliaia di esecuzioni vietnamite dopo; lo fecero i liberal occidentali inneggiando al premio Nobel per la pace Arafat, salvo poi scoprire che lo stesso fu l’unico vero impedimento alla pace in Palestina per biechi interessi personali; lo fanno ancora oggi i giovani con la faccia del Che stampata su magliette e bandierine, senza immaginare di portare così a spasso l’effigie di un assassino isterico, esautorato dallo stesso Castro per manifesta incapacità a fare qualsiasi cosa che non fosse ordinare fucilazioni. Così è il mondo.
Per questo motivo – benché motivati da un’indigestione di violenta opulenza e masochismo consumistico occidentale alla disperata ricerca di un paradiso alternativo – sarebbe ingeneroso sia attribuire infiniti pregi morali e ultraterreni ai monaci tibetani, sia considerarne soltanto le vergogne storiche normalmente presenti in qualunque processo nazionale. Allora, evitando di urlare a squarciagola “Free Tibet!”, cosa che i tibetani per primi non vogliono assolutamente (al massimo un’autonomia amministrativa; e allora tutto questo caos per una misera autonomia, si dirà: ebbene sì!), sarebbe utile leggere il libro di Pietro Angelini, Tibet – Mito e Storia, per andare al di là delle farneticazioni new age da bolsi attori hollywoodiani che individuano in questi atteggiamenti la soluzione alle contraddizioni del nostro mondo occidentale.
In verità ben altre contraddizioni albergano in questo popolo di monaci, dedito fin dall’antichità meno alla religiosità che allo sfruttamento dei contadini, in un approccio feudale sopravvissuto a tutt’oggi, dove a fronte di una esigua minoranza dedita alla speculazione mistica esiste una percentuale del 30 per cento di monaci rispetto alla popolazione tibetana che vive della propria condizione privilegiata e poco ammirevole. Formidabile, quindi, questo recente libro che è un racconto d’avventura sotto la veste di saggio magico, un modo nuovo d’analizzare momenti di storia e di socialità attraverso una narrazione personalissima, fascinosa, incantata, ma al contempo strettamente scientifica nelle sue conclusioni.
Incontriamo così lungo la storia del Tibet, le guerre assurde combattute dai monaci, le loro superstizioni, le violenze, la tortura “Ling chi” – la morte dei mille tagli (i tagli sono tutti piccoli, ma alla fine la persona muore) – decretata ai reciproci oppositori politici, le trame regali, i colpi di stato, gli intrighi, la spontanea sottomissione per secoli alla Mongolia e poi alla Cina pur di conservare il potere dei monasteri sulle popolazioni tibetane. E soprattutto il rifiuto di avvicinarsi a una modernità democratica.
Troppo spesso ostaggio dei miti che l’Occidente ha messo in vendita nei supermercati del nuovo materialismo spirituale, il Tibet viene descritto come un paradiso perduto. Un luogo popolato da saggi monaci non-violenti, vittime inermi di un “genocidio” da parte dei cinesi che sembrano incarnare tutto il male possibile. Secondo una visione opposta, fino agli anni Cinquanta era invece una specie di Stato canaglia, una teocrazia fanatica e integralista governata da leggi barbare e sorretta da un rigido sistema feudale di servitù della gleba. Ma i due punti di vista sono ugualmente fuorvianti, perché eludono la complessità delle vicende storiche che cinquant’anni fa hanno determinato l’esilio del Dalai Lama e la nascita della questione tibetana.
Il libro di Angelini racconta il Paese delle Nevi dai primi miti agli ultimi tragici avvenimenti, le radici del conflitto coi cinesi, così come la vera storia del Tibet. Un resoconto fuori dal coro – sorretto da un’impressionante documentazione – sulle vicende passate e le prospettive future di una cultura unica al mondo e di un popolo sull’orlo dell’estinzione.