Il Pd di Renzi è di fronte a un bivio
28 Dicembre 2013
La più rilevante novità della politica italiana è senza dubbio l’elezione di Matteo Renzi alla segreteria del Partito democratico. Si tratta di un avvenimento che va salutato con favore soprattutto per una ragione sistemica di fondo. Con la nuova segreteria il Pd abbandona la logica delle ammucchiate antiberlusconiane e si candida da solo al governo del paese, ritrovando quella vocazione maggioritaria che si era largamente appannata durante la gestione Bersani. In sostanza, Renzi non appare intenzionato a privilegiare gli elettori fedeli o ideologicamente orientati, ma mostra di voler ricercare un consenso universalistico sulla base delle proprie proposte.
Sotto questo profilo risulta assai significativa la netta presa di distanza dalla Cgil, che non è più visto come il principale alleato, che in sostanza detta la politica economica, ma è solo un interlocutore sociale tra gli altri. Riguardato da questa angolazione appare significativo anche il rinnovamento degli organismi dirigenti operato dal nuovo segretario. Intendiamoci, di per sé il rinnovamento anagrafico non è un indicatore di qualità; in questo caso, però, la scelta operata serve a marcare un cambio di passo nell’azione del partito, voltando pagina rispetto al recente passato.
Le novità positive fin qui segnalate andranno però valutate alla prova dei fatti. In particolare il neo segretario democratico ha davanti a sé due direzioni rispetto a cui indirizzare la propria azione nel prossimo futuro. Può decidere di puntare tutto su elezioni anticipate da far svolgere nel più breve tempo possibile; oppure può lavorare d’intesa con il governo Letta fino al 2015, che è la durata indicata dal Quirinale e accettata dalle altre forze politiche di maggioranza. Nel primo caso deve far approvare al più presto una nuova legge elettorale da concordare con chi chiunque ci sta (grillini compresi).
Passato questo primo ostacolo dovrà minare l’attuale governo con una ininterrotta e logorante guerriglia quotidiana. Poi occorrerà superare la resistenza di Napolitano e, forse, correre il rischio di una nuova elezione presidenziale al buio (cioè senza avere a disposizione una candidatura forte e condivisa). Passate tutte queste forche caudine, e ammesso che le elezioni si concludano con un risultato positivo e una maggioranza in entrambe le camere, occorrerà governare. In sostanza appare molto concreto il rischio di ritrovarsi con una maggioranza se non incerta, perlomeno instabile. In ogni caso, anche uscito vincitore dalle urne il neo segretario dovrà fare i conti con un parlamento pletorico, organizzato sui moduli farraginosi del bicameralismo paritario; sarà obbligato a un processo legislativo faticoso, da superare con continui voti di fiducia; si troverà esposto a colpi di mano d’assemblea e a derive trasformistiche. Insomma, per non passare in pochi mesi da salvatore della patria a profeta disarmato, Renzi dovrà mettere mano a una riforma costituzionale, ovvero tornare, dopo un anno di vorticose schermaglie, all’agenda dell’attuale governo.
La seconda strada è quella di collaborare con Letta per realizzare quel tanto di riforma costituzionale al momento possibile: superamento del bicameralismo simmetrico (con connessa riduzione dei parlamentari), modifica del titolo quinto per riequilibrare e riordinare il riparto di competenze tra stato e regioni (in modo da tenere a freno più facilmente la spesa pubblica). Fatto questo sarà possibile scrivere anche la nuova legge elettorale. Si tratta di una strada meno pagante dal punto di vista mediatico, in cui il sindaco di Firenze non potrà occupare tutta la scena, ma dovrà lasciare un po’ di spazio anche ad altri protagonisti. Da un altro punto di vista, però, questa strada risulterà assai più vantaggiosa in prospettiva perché sarà in grado di assicurare, anche al Renzi futuro presidente del consiglio, una maggiore governabilità e una stabilità virtuosa e non impotente.