Il Pd ha perso l’ennesimo referendum su Berlusconi
30 Marzo 2010
E’ un duro risveglio quello del Pd, all’indomani della tornata elettorale delle Regionali. La presa d’atto che l’ondata di riflusso che da sempre accompagna le elezioni di mezzo termine, penalizzando il governo in carica, quest’anno non solo non si è sollevata a scuotere gli equilibri dell’esecutivo ma si è addirittura abbattuta sul principale partito di opposizione.
La fotografia è nitida e indiscutibile: il Partito Democratico si attesta della sua “ridotta”, si tiene stretta le roccaforti del Centro Italia, sia pure con alcuni segnali preoccupanti provenienti dall’Emilia Romagna, e si rinchiude sempre più nella definizione di partito appenninico oltre che di forza politica incapace di esercitare una reale attrazione presso i ceti più dinamici e produttivi del Paese.
Al Nord i democratici non arrivano al 23 per cento, perdono il Piemonte e vincono soltanto in Liguria, regione tendenzialmente rossa visto che in quella terra dal ‘95 ad oggi il centrodestra ha vinto solo una volta. La vittoria di Claudio Burlando, inoltre, nasconde solo parzialmente il fatto che il Pdl ha sottratto al Pd lo scettro di primo partito della regione.
Le altre vittorie del centrosinistra sono state conseguite tutte al Centro, ad eccezione della Puglia dove il candidato del centrosinistra Nicky Vendola non è un esponente del Pd ma è anzi un uomo che si è imposto con la forza del suo consenso a scelte verticistiche a lui contrarie. Al Sud il risultato di Campania e Calabria è lo specchio evidente del fallimento di una classe dirigente strettamente riconducibile alla tradizione del Pd. Ma i motivi di preoccupazione non finiscono qui.
In Emilia, ad esempio, continua la crescita graduale ma costante della Lega che tocca quota tredici per cento e lavora più o meno sotto traccia al progetto di un paziente sfondamento al centro. L’Italia dei Valori tiene bene e prende percentuali quasi ovunque superiori a quelle dell’Udc, ribaltando l’ordine di priorità delle possibili alleanze. Senza contare poi l’exploit emiliano-romagnolo delle liste di Beppe Grillo che vanno a rimpinguare il bacino della galassia giustizialista-massimalista.
Il quadro complessivo, insomma, è ricco di complessità e riporta allo scoperto il problema dell’identità irrisolta del partito di Via del Nazareno. Le difficoltà strutturali sono sotto gli occhi di tutti e toccano da vicino la linea di navigazione a zig zag imposta dal segretario.
Pierluigi Bersani aveva svolto la sua campagna congressuale cercando di alzare il livello del confronto, attestandosi su una linea riformista centrata sulla necessità di non demonizzare Berlusconi ma di preparare un’alternativa credibile. Il richiamo della foresta elettorale, invece, lo ha riportato sui territori più scontati e negli ultimi due mesi il numero uno del Pd è tornato a schiacciarsi su Di Pietro, sull’antiberlusconismo di maniera, sul santorismo/travaglismo, sull’appoggio acritico all’interventismo salvifico delle procure. Risultato: una elezione che una volta più si è trasformata nel solito referendum pro o contro Berlusconi, inesorabilmente perso dal Pd.
Su questa base intercettare l’elettorato intermedio e i ceti produttivi diventa davvero arduo. E se anche il bacino della protesta viene scippato dai partiti delle viscere la situazione si complica e si rischia la definitiva emarginazione. Difficile prevedere cosa potrà accadere adesso. I dati elettorali sono impietosi. Come testimonia il senatore del Pd Stefano Ceccanti i voti assoluti nell’insieme delle 13 regioni emettono un verdetto chiaro. “Abbiamo preso stavolta 5.846.000 voti, un secco ridimensionamento non solo rispetto al dato obiettivamente lontano dei 7.850.000 delle precedenti regionali, ma anche rispetto ai 6.957.000 delle europee, il punto più basso che avevamo toccato. Sono 1.111.000 voti in meno, il 16 per cento dei nostri voti. Da qui si riparte insieme, senza edulcorare la realtà”.
Quel che è certo è che riaprire la questione della leadership sarebbe suicida. Esiste, però, il pericolo che possano scatenarsi forze centrifughe a partire da Piemonte e Veneto e leader come Sergio Chiamparino e Massimo Cacciari possano riprendere a coltivare il sogno di un partito del Nord. Un’ipotesi che potrebbe davvero prendere quota, qualora il partito scegliesse la via dell’immobilismo e dell’arroccamento in se stesso.