Il Pd ha perso ogni rapporto col paese reale e teme il responso delle urne

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Il Pd ha perso ogni rapporto col paese reale e teme il responso delle urne

13 Ottobre 2009

In Italia la parola “riformismo” non ha mai trovato la rima giusta. La lista dei riformisti "riformati" dai massimalisti ed estromessi da ogni posizione di potere è lunga e i nomi, tutti illustri, da Leonida Bissolati a Giacomo Matteotti passando per Filippo Turati, rendono soltanto una vaga idea dell’accanimento messo, soprattutto nella grande famiglia del comunismo italiano, a liquidare ogni ipotesi riformista.

Chi è riformista oggi in Italia e che cosa significa riformare in un Paese dove l’ultima grande riforma organica, quella della scuola media, risale al 1963 ad opera dell’allora ministro Luigi Gui? E perché in Italia ogni volta che si richiama la necessità di fare riforme, si tratti della giustizia o della Costituzione, si alza un muro di ostilità cementato dal solito timore che quella riforma sarà l’occasione per consumare “ritorsioni” o “vendette” contro qualcuno?

E’ davvero inspiegabile il mood in cui si trascina la politica italiana dal fatidico anno 1993. E’ uno stato di sospensione surreale: se il governo mette in cantiere una riforma della giustizia per eliminare le patologie da tutti riconosciute e denunciate, sicuramente – si dice – è per consumare una vendetta contro i magistrati. Se lascia le cose così, o si limita a interventi di circostanza, sicuramente – si dice – è perché non è in grado di trovare risposte all’altezza della sfida o lo fa soltanto per tutelare il presidente del Consiglio.

L’immunità, vale a dire il complesso di guarentigie che mette il parlamentare al riparo da eventuali soprusi della magistratura senza per questo renderlo legibus soluto, è lo strumento decisivo di ogni sistema parlamentare rappresentativo e la chiave di volta per dare vita e sostanza alla separazione dei poteri come la immaginava Montesquieu. Separazione che si sostanzia, prima di ogni cosa, nell’impossibilità per ciascuno dei poteri di invadere la sfera di autonomia dell’altro. Dal 1993 non è più così in Italia: il protagonismo della magistratura, divenuta, essa sì, legibus  soluta, è il riverbero macroscopico dell’istinto suicida che ha spazzato dalla scena un intero ceto politico (anche se, per stare a Pareto, quella era una “classe” nel senso marxiano).

I lamenti pressoché quotidiani sull’equilibrio delle istituzioni da salvaguardare sono figli di una visione farisaica e ipocrita. Perché quell’equilibrio è stato in realtà frantumato in mille pezzi, come sanno tutti (quelli che lo riconoscono e lo denunciano ad alta voce, e gli altri che preferiscono sussurrarlo in conciliaboli ristretti), proprio con l’abolizione dell’immunità parlamentare che ha privato il Parlamento, sede del potere legislativo, e l’esecutivo, dell’unico scudo decisivo per mantenere gli equilibri immaginati e voluti dai padri costituenti.

In nessuna democrazia dell’occidente si sente un rappresentante del sindacato dei magistrati minacciare reazioni contro il Parlamento se una qualsiasi riforma della giustizia non dovesse rispondere a criteri graditi ai magistrati medesimi. Quello che viene percepito come abnorme altrove, non lo è da noi per la ragione che la diffusione dei poteri rappresentativi ed elettivi ha finito, dopo il 1993, per includere la stessa magistratura. Che rimane, invece, un “ordine” dotato di un “ordinamento” (artt. 102 e 104 della Costituzione), e soggetto “soltanto alle leggi”, ma mai può costituirsi in potere perché così hanno voluto i padri costituenti.

La riforma della giustizia o della Costituzione, il mutamento degli assetti istituzionali – si tratti del passaggio alla Repubblica presidenziale o del premier eletto direttamente dal popolo senza più la nomina del Capo dello Stato – sono gesti riformatori comunque “forti” in un Paese abituato a non riformare mai nulla.

Non a caso l’Italia è una delle poche democrazie dove il concetto di riforma, dopo 60 anni di palude politica, assomiglia tanto alla"rivoluzione" mentre, per 60 anni, il concetto di rivoluzione ha fatto rima con quello di conservazione, non solo sul piano istituzionale.

Il vecchio PCI, almeno fino alla conclusione della stagione berlingueriana, nel 1984, ha sempre guardato alla società italiana come al luogo in cui si sublimava la contrapposizione fra "Paese reale" e "Paese legale". Il primo, era il Paese dominato dalla spinta propulsiva dell’ideologia comunista, dominante nella fabbriche e nella "classe operaia", con la potente cinghia di trasmissione del sindacato organizzato, con le miglia di sezioni nei Paesi, nei luoghi di lavoro, nei ministeri: una capacità capillare di penetrazione che faceva del PCI una sentinella sempre vigile "contro le forze reazionarie" sempre in agguato.

Il Paese "legale" era, nel lessico comunista, quello del ceto politico moderato, dei piccoli e medi imprenditori e, insomma, di quelle forze che per mille ragioni si erano sottratte all’influenza culturale della sinistra anche se si guardavano bene dal contestarne il ruolo egemone nella società. Il Paese"legale" coincideva inoltre, almeno fino all’epoca di Enrico Berlinguer e Luigi Natta, con la "democrazia formale", percepita e descritta dal PCI come un complesso di istituti asettici e troppo neutri quando non di ostacolo per portare una svolta nelle politiche sociali ed economiche del Paese.
Gli eredi di quella tradizione hanno oggi completamente rovesciato il loro punto di vista. Il Paese "reale", della cui rappresentanza hanno per decenni rivendicato il monopolio, almeno sul piano culturale e dell’amministrazione locale, ha voltato le spalle alla sinistra. I post-comunisti come i post-democristiani di sinistra si ritrovano così a "sopravvivere" nelle istituzioni  e in genere nei corpi "neutri" (dalla presidenza della Repubblica alle correnti della magistratura) un tempo nel mirino del PCI, come ci raccontano le battaglie a colpi bassi contro le presidenze della Repubblica prima di Giovanni Leone poi di Francesco Cossiga.

La difesa delle istituzioni da parte del PD, come ieri del PCI, avviene secondo il principio della "intransigenza flessibile". E’ così da quando, per la prima volta, il comunista Pietro Ingrao fu eletto alla presidenza della Camera. Ingrao, Iotti, Violante: lo scranno più alto di Montecitorio, unica bandiera visibile del PCI e poi del PD, per "fare" politica dai vertici dello Stato non avendo più i consensi nel Paese per fare politica dal governo.

Il PD ha dovuto rielaborare in tutta fretta gli schemi di lettura e di interpretazione del PCI. La sua impermeabilità a qualsiasi discorso riformatore si spiega proprio con il fatto che i vertici dello Stato o l’elezione del presidente dell’ANM o la nomina del vicepresidente del CSM sono le ultime cariche sottratte al responso popolare delle urne e possono essere decise attraverso conciliaboli e accordi fra i partiti o correnti di essi. Una riforma radicale, che mettesse quelle cariche sul mercato della competizione politica ed elettorale, è inconcepibile per i "mandarini" del PD che nel "Paese reale", un tempo amico, vedono oggi il peggior avversario alla loro sopravvivenza.

Una rivoluzione “riformatrice” quale serve all’Italia e quale Berlusconi ha in mente, non può nascere solida se priva di una sanzione popolare solenne, circostanza prevista e disciplinata in termini restrittivi dall’art. 138 della Costituzione, dal momento che il pronunciamento popolare attraverso il referendum confermativo è previsto solo nell’eventualità di modifiche approvate da una maggioranza parlamentare inferiore ai due terzi. Con il che, il costituente ha lasciato una notevole libertà di aggiustamenti alle forze politiche, padrone, secondo la logica della loro particolare convenienza, di adattarle ai propri interessi.

Oggi, però, anno di grazia 2009, non c’è più un solo partito in Parlamento che sia espressione della remota stagione costituente. Tutti spariti, spazzati via da Tangentopoli o dalla storia, e il loro posto è stato preso da nuove formazioni politiche. Formazioni nuove e dunque bisognose di una legittimazione popolare forte, insomma una prova del fuoco, un "giudizio di Dio" che valga come atto fondativo o rifondativo della Repubblica. Ecco perché l’idea di riforme partorite nelle aule parlamentari è un obiettivo arduo da conseguire. Se non si fanno ora le riforme, quando?