Il Pd inciampa su Bce, referendum e incapacità di scegliere
07 Ottobre 2011
Una strategia di massima di politica economica? Nessuna. Una visione del futuro che susciti partecipazione e speranze? Neppure a parlarne. Risposte sul merito dei problemi italiani? Non pervenute. Ricette di buongoverno? Vergate con inchiostro simpatico oppure semplicemente lasciate in bianco. Ipotesi concrete per la premiership? Niente, come sopra. In questo convulso finale di legislatura colpisce la capacità della maggiore forza di opposizione, il Partito democratico, di inchiodare se stesso al destino di sempre, di stampare ossessivamente la stessa fotografia, di ripetere senza soluzione di continuità la stessa strofa, un po’ come la litania bersaniana della richiesta di dimissioni indirizzata verso il presidente del Consiglio.
Il copione sembra ripetersi all’infinito, con il segretario incapace di scegliere e sempre più ancorato al facile “ma-anchismo” veltroniano. L’ultima dimostrazione di confusione è arrivata ieri con la surreale querelle sulla scelta del candidato alla guida dell’Anci, con Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia, che alla fine di una giornata di passione, ha avuto la meglio sul primo cittadino di Bari, Michele Emiliano. Ma per dipanare la matassa è stato necessario ricorrere a una sorta di primarie interne visto che il dibattito si era ormai avviluppato nel correntismo spinto con gli amministratori locali confusi, arrabbiati, delusi. Pochi giorni prima, invece, era andata in scena la direzione del Pd con un ricco e litigioso menu: scontro sul referendum; divisione sul voto anticipato e, naturalmente anche sulla leadership. Una riunione definita “senza controllo” anche dai fedelissimi del segretario e da tanti dirigenti che hanno ammesso che “se continua così c’è da aver paura perché il nostro elettorato rischia di non seguirci più”. D’altra parte lo stesso Bersani, replicando amaro a tutti coloro che lo avevano messo sotto accusa per la “timidezza” dimostrata nel sostenere la raccolta delle firme per il referendum, aveva scandito: “Mi stupisce che dirigenti del Pd, invece che valorizzare il nostro contributo, lo azzoppino. Per me il Pd non è un optional. Io non sono il segretario di un optional”.
La tensione, insomma, è ormai tornata ai livelli massimi in un partito le cui anime (Enrico Letta, Paolo Gentiloni, Ivan Scalfarotto, Matteo Colaninno a favore; Stefano Fassina e Cesare Damiano contro) si sono presentate divise anche sulla lettera inviata in estate dalla Bce al governo. Senza dimenticare il derby sull’ipotesi di un “governo istituzionale”, con il trio Veltroni-Letta-Franceschini schierato a favore e il resto del partito contrario o più semplicemente impantanato nella palude dell’indecisione. E sullo sfondo di ogni animato confronto i veleni e i retropensieri assortiti su chi stia tirando la volata a questo o a quell’altro, su chi voglia fare le scarpe a Bersani per tirare la volata a Renzi e chi desideri invece provare a riportare in auge Romano Prodi. Senza dimenticare l’infinita querelle sulle alleanze che, senza improbabili colpi di scena, sembra destinata a chiudersi con l’accordo soltanto con Antonio di Pietro e Nichi Vendola.
Una chiusura nella ridotta della sinistra che rende ancora più temibile la prospettiva di governare il Paese in una fase, ancora lunga, di crisi economica e di tendenziale recessione con il Pd intrappolato in alleanze che appaiono come una garanzia di litigiosità, di logoramento e di sostanziale ingovernabilità del Paese. Se oggi, infatti, il giochetto di dichiararsi irresponsabili di fronte alle scelte concrete e impopolari della salvaguardia dei conti pubblici si risolve nello stare alla finestra e provare a lucrare decimali di consenso, domani, se il centrosinistra dovesse tornare al governo, questa scorciatoia non sarà più praticabile. E inevitabilmente, quella stessa disciplina europea diventata ora il grimaldello con cui violare le serrature di Palazzo Chigi, imporrà delle scelte. Scelte tanto più dolorose perché non preparate oggi attraverso l’assunzione di una accettabile quota di responsabilità. La stessa che potrebbe assicurare quel minimo sindacale di credibilità necessario ad affrontare quelle sfide – vedi debito da garantire e crescita da assicurare – che qualunque governo non potrà comunque eludere. Né esorcizzare a colpi di demagogia.