Il Pd lascia irrisolti i grandi nodi e rompe definitivamente il tabù dell’unità

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Il Pd lascia irrisolti i grandi nodi e rompe definitivamente il tabù dell’unità

14 Gennaio 2011

"L’unità è d’oro ma la chiarezza di diamante". La frase pronunciata da Dario Franceschini – insieme a un indimenticabile "tutti i pettini vengono al nodo" – racchiude bene la novità che la Direzione del Pd ieri ha stampato a fuoco nella storia del partito. Le bufere di carta, sempre pronte a scatenarsi sui quotidiani e a infrangersi alla prova politica del confronto, questa volta si tramutano in una sfida a viso aperto e nella rottura del tabù dell’unità.

La Direzione, alla fine, approva sì la relazione del segretario Pier Luigi Bersani con 127 voti a favore, due contrari e due astenuti. Ma gli esponenti della componente di Movimento democratico decidono di non prendere parte al voto finale. Certo non si spingono fino a votare contro e sancire il definitivo strappo. Ma di certo mettono in chiaro che esistono anime diverse nel partito e la concorrenza interna è ormai conclamata e ufficializzata. Era stato lo stesso segretario, fin dalla mattinata, a mettere in chiaro che avrebbe chiesto un voto sulla sua relazione in modo da fare «chiarezza» e dare «solidità» al partito.

Gli esponenti di Movimento democratico – che nei giorni scorsi avevano chiesto di evitare la conta interna – avevano risposto per bocca di Paolo Gentiloni: «Io avrei escluso l’esigenza di un voto finale, Bersani tuttavia lo chiede e noi anticipiamo a questo punto la nostra decisione di votare contro». Nella sua replica, Gentiloni aveva espresso riserve sulla linea della segreteria soprattutto a proposito della vertenza Fiat – questione che sta lacerando il partito, diviso tra anti e pro Marchionne e incerto sul referendum in corso a Mirafiori – e sulla politica delle alleanze. A quel punto Gianclaudio Bressa, vicino a Dario Franceschini, aveva infiammato la discussione denunciando il «risentimento» delle parole di Gentiloni e avvisando che a questo punto si poneva "il problema della gestione degli incarichi nel partito da parte degli esponenti di Movimento democratico". Una sorta di invito a lasciare le poltrone. Durissima la reazione Modem: Fioroni, anche a nome di Gentiloni, definiva "gravissimo" l’atteggiamento di Bressa e annunciava le dimissioni dagli incarichi di partito (dimissioni poi rientrate dopo le rassicurazioni di Bersani).

Poi la conta, l’astensione – un compromesso comunque affilato e tagliente – e la frattura. Concludendo la sua relazione, Bersani aveva avvisato "che bisogna fare un richiamo forte ai comportamenti" in quanto "si sentono, purtroppo anche in luoghi non periferici del partito, parole non rispettose, parole che non danno l’idea minima di solidarietà, di rispetto e stima reciproca. E anche parole ambigue sulle stesse prospettive del partito". Il che è inaccettabile, soprattutto avendo davanti "un anno di combattimento".

Ci si chiede ora quale segno lascerà la spaccatura emersa in direzione rispetto alle dinamiche interne del Pd. Inevitabile il rilancio delle varie ipotesi di scissione nel partito, in particolare da parte degli ex popolari guidati da Fioroni, già pronti a votare in libertà sul biotestamento. Ma soprattutto le prossime settimane saranno segnate dall’emergere alla luce dello scontro, finora sotterraneo e carsico, tra i neo-lingottisti di Walter Veltroni e la maggioranza di Bersani (che pure al suo interno non è certo graniticamente compatta). Una distanza politica che non potrà che approfondirsi.

Anche perché alla lista dei detentori di malumori si iscrivono i "rottamatori" come Pippo Civati che afferma: "Non c’è stato chiarimento sulla linea, è una strategia pericolosa che ci allontana dagli elettori". C’è Ivan Scalfarotto per il quale il Pd è diventato "informe come l’acqua che assume la forma del recipiente in cui viene messa". C’è Arturo Parisi che commenta: "Bersani non ha chiarito dove vuole portarci" e si è presentato qui con "una lenzuolata di titoli". C’è Sergio Chiamparino che critica: "Mi aspettavo una posizione più netta a favore del sì a Mirafiori". E Walter Veltroni che non interviene ma prepara l’appuntamento del "Lingotto2", sabato 22, a Torino.

Il grande show-down, insomma, si è risolto nella fotografia di un dissidio portato allo scoperto e sotto i pubblici riflettori. E quella che doveva essere la Direzione con cui tornare a parlare al Paese e dirimere le grandi questioni inevase, le alleanze, le primarie, la Fiat, alla fine si risolve nel braccio di ferro per il posizionamento interno e nella semplice definizione di nuovi equilibri di potere. Una scorciatoia che non toglie la sensazione di un partito sempre più sulla soglia dell’implosione.