Il Pd nel caos cerca una strada tra rilancio e suicidio

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Il Pd nel caos cerca una strada tra rilancio e suicidio

02 Aprile 2010

Il Partito Democratico affronta l’ennesima tempesta e si prepara a settimane di dibattiti accesi e verifiche interne. Un film già visto, replicato alla fine di ogni tornata elettorale sia pure con protagonisti differenti, che testimonia della difficoltà della formazione di Via del Nazareno di affrontare davvero il cronico problema di una irrisolta identità. “Continuiamo ad essere percepiti come il partito che non si preoccupa dei flussi migratori e che considera le tasse bellissime” dice amaro Enrico Letta. E Antonio Padellaro dà voce all’impazienza riprendendo il refrain morettiano: “Con questi leader non vinceremo mai”.

Il problema, nella babele di voci che si alzano nel dopo voto, è individuare una linea e un percorso. C’è chi pensa che sia necessaria una coalizione “assembla-tutto” e chi invece è convinto che serva tornare alla vocazione maggioritaria del partito, a una condizione di partito-guida che riesca a imporre il proprio punto di vista sulla galassia disordinata della sinistra estrema. C’è chi sostiene, come Walter Veltroni, che bisogna ammettere che le elezioni “sono andate male”, serve “guardare in faccia la realtà” ed è il caso di lasciare da parte il tentativo di “riedizione dell’Unione, magari con l’aggiunta di Grillo. Occorre – è il parere di Veltroni – il disegno di un nuovo ordine sociale che per ora non c’è”. E chi come Pierluigi Bersani è convinto che “il Partito democratico è in piedi” e che “nel Partito democratico c’è spazio, come è nostro costume, per una discussione larga e libera sul dopo elezioni e sulle prospettive del nostro partito, ma non per dibattiti autoreferenziali che potrebbero allontanarci dal senso comune dei nostri concittadini”.

In quest’ottica non appare un caso che il segretario del partito abbia deciso di rivolgersi direttamente ai circoli, alla base, al territorio. Bersani, nel tracciare la via da percorrere, parla di un partito del “lavoro”, delle “regole” che “lavora per istituzioni più moderne rifiutando la chiave populista”. Un messaggio chiaro sulla necessità di non farsi trascinare nel gorgo del grillismo, del giustizialismo a ogni costo, dell’antiberlusconismo come unica religione laicamente integralista e non mescolarsi con una compagnia di giro che si è rivelata dannosa per lo stesso Pd. Un messaggio che in qualche modo riecheggia la richiesta veltroniana di non ridursi a farsi partecipi di una “alleanza dei no”.

Sullo sfondo, però, si apre già un’altra questione: quella del candidato premier. Mentre Repubblica invoca l’avvento di un “papa straniero”, Antonio Di Pietro mette la questione sul tavolo: “Il candidato premier dovrà essere individuato entro l’anno. Dal primo maggio parte la nostra campagna di ascolto con i banchetti nelle piazze” dice il leader dell’ Idv che, a domanda sulle future chance del segretario del Pd come sfidante di Berlusconi, replica: “Nessuno dei leader di centrosinistra” è adatto, “nemmeno Bersani”. Il tutto mentre Sergio Chiamparino, chissà quanto per pretattica, assegna “zero probabilità” all’ipotesi di diventare segretario Pd e candidato premier.

Come se non bastasse ci si mettono anche due dei più accreditati leader del futuro che si incastrano in una velenosa polemica tra il politico e il personale. Come dire che gli stracci volano anche tra le giovani leve del partito con il sindaco di Firenze Matteo Renzi che va all’attacco del presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti reo di essere stato poco coraggioso e non essersi candidato alla regione Lazio consegnando così la vittoria al centrodestra. Il diretto interessato lo rintuzza dandogli in sostanza del carrierista, ma il giovane sindaco di Firenze ribadisce il concetto, criticando chi “immagina di avere sempre la sedia garantita”. Non solo. Definisce “legittima” la decisione di Zingaretti di non candidarsi, ma aggiunge una stilettata: “Allora bisogna dirlo fin dall’inizio che noi del Pd portiamo avanti i nostri mandati, e invece non l’abbiamo sempre fatto, come ad esempio è accaduto con Veltroni”. Un botta e risposta che Debora Serracchiani commenta con ironia morettiana: “E allora continuiamo così, facciamoci del male”.

Punteggiatura impeccabile nel momento in cui Di Pietro cerca di intestarsi un ruolo nuovo: quello di leader ombra di tutta l’opposizione. Facendo mostra di un pragmatismo destinato a suscitare ulteriori problemi e imbarazzi all’interno di un Partito Democratico, come al solito, alla ricerca di una identità.