Il Pd si rifugia nell’alibi dell’ “emergenza democratica” per non precipitare

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Il Pd si rifugia nell’alibi dell’ “emergenza democratica” per non precipitare

30 Agosto 2010

Il fitto epistolario agostano perlomeno un merito l’ha avuto: quello di regalare qualche titolo di giornale a un Partito Democratico rimasto completamente fuori dai giochi politici per intere settimane.

C’è stato il mini-dibattito sulla possibile ridiscesa in campo di Walter Veltroni e il suo richiamo al rispetto del bipolarismo. E poi a seguire il mini-dibattito sulla risposta di Pierluigi Bersani a Walter Veltroni e sulla sua proposta di creare un “nuovo Ulivo” che metta assieme le forze progressiste (dall’Ulivo di Prodi, nel ‘96, Rifondazione era fuori) ma anche strutturare un’ «alleanza democratica» con le forze contrarie al berlusconismo e preoccupate per la democrazia. Un modo per mettere insieme nello stesso piatto lo zucchero e il sale e il diavolo e l’acquasanta, ovvero Di Pietro, Vendola, socialisti e pezzi di società civile, ma anche l’Udc di Casini e, perché no, aree come quella rappresentata da Montezemolo.

Un’insalata che somiglia tanto all’instabile Unione del secondo Prodi ma questo non si può dire perché l’Ulivo nell’immaginario democratico richiama un successo ed è bene restare ancorati a un simbolo che conserva un certo appeal. Un uso evocativo di un marchio che soltanto Arturo Parisi ha il coraggio di leggere in una prospettiva limpida e diretta. “Per ora dell’Ulivo vedo rispolverato il nome, come domanda di speranza e riconoscimento di disperazione. Per capire quali siano le differenze tra il Nuovo Ulivo e l’antico, conviene attendere ancora qualche chiarimento”.

Naturalmente, poi, per chiudere il cerchio del dibattito post-ferragostano non si poteva non prevedere un intervento di suggello da parte di Massimo D’Alema, duro con Veltroni la cui lettera “ha avuto come unico effetto quello di dare una mano a Berlusconi”, mentre la “proposta di Bersani ha avuto il merito di “riappropriarsi dell’agenda politica, affermando cose molto ragionevoli”. Il tutto condito dall’eterna aspirazione dalemiana di un sistema elettorale plasmato sul modello tedesco che consentirebbe di “convogliare un campo vasto di forze, dall’Udc alla Lega, e creare un assetto tendenzialmente bipolare, anche se non bipartitico, dove si andrebbe alle urne con cinque, massimo sei partiti, con un centro forte che si allea con la sinistra, con la sfiducia costruttiva, con una buona stabilità dei governi, che volendo potremmo persino rafforzare con l’introduzione di una clausola anti-ribaltone. Non riesco a immaginare uno schema migliore, per un Paese come il nostro”. In pratica un sistema per far sì che siano i partiti dopo il voto, e non gli elettori con il voto, a stabilire chi deve governare.

La fotografia del Partito Democratico alla ripresa dei giochi politici appare insomma ingiallita e sbiadita, simile a quella scattata negli ultimi anni in periodi simili, con temi in fotocopia declinati sempre dagli stessi protagonisti. Un immobilismo e una debolezza atavica che impedisce la ricerca di una reale definizione della propria identità ma costringe sempre e comunque il partito alla ricerca di acrobatici cartelli elettorali. Il tutto nel nome della mitica “emergenza”, parolina magica  legata all’antiberlusconismo, che diventa l’eterno alibi per restare bloccati a discutere di primarie di partito o di coalizione, di leggi elettorali da modificare e magari di qualche bella manifestazione di piazza.

Unico elemento certo, a giudicare dalle reazioni che hanno accompagnato le uscite dei vari dirigenti, è che la maggioranza del partito appare maggiormente affascinata dalla linea bersaniana del “tutti dentro” che da quella più rigorosa di Walter Veltroni.

E così ora si attende con una discreta attenzione l’appuntamento del 12 settembre quando il segretario chiuderà la Festa democratica e parlerà come candidato virtuale alla premiership. Una condizione ancora instabile e incerta e sottoposta a una competizione interna che sta iniziando a decollare, seppure tra mille stop and go, con Nichi Vendola e Sergio Chiamparino ormai entrati come outsider nella grande corsa dalla data incerta.