Il Pd torna alla vecchia politica, ovvero non avere una linea politica

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Il Pd torna alla vecchia politica, ovvero non avere una linea politica

08 Marzo 2011

Nel Pd si torna alla buona, vecchia linea politica di sempre. Quella che si può tradurre, in estrema sintesi, nel non avere una linea. Oppure nell’averne troppe e rigorosamente in contrasto l’una con l’altra. Finita la sbornia delle firme antiberlusconiane – quei famosi dieci milioni di sottoscrizioni non esattamente controllati da un ufficio certificazione di stampo teutonico – ora si cerca di ritrovare un terreno politico su cui confrontarsi, una piattaforma programmatica, un’alternativa al fortino identitario dei duri e puri anti-Silvio. Impresa non facile a giudicare dalle prime mosse e dalle reazioni all’intervista con la quale Pier Luigi Bersani lancia alla sua gente e ai suoi dirigenti due segnali. Il primo è sulle alleanze. “Non faremo passi indietro. Il patto con il Terzo Polo si farà” dice il segretario del Pd. Il secondo è sulla leadership: una corsa dalla quale l’ex presidente dell’Emilia-Romagna non ha alcuna intenzione di ritirarsi.

La verità è che essendo ormai finita l’emergenza ed essendo state allontanate le elezioni dallo spettro delle ipotesi all’orizzonte, appare finita anche la tregua interna al partito. Si torna, così, all’eterno conflitto di base: quello con l’area che fa capo a Walter Veltroni. La linea del fronte è quella delle alleanze. Bersani insiste per una strategia basata sull’ intelligenza con il nemico di un tempo e propone un abbraccio emergenziale con il Terzo Polo, a partire dalle amministrative. Una scelta che per la minoranza critica del Pd non ha più molto senso. A tirare le fila delle voci in dissenso è il senatore veltroniano, Enrico Morando. Alcuni giorni fa era stato un suo intervento sul Foglio a riaprire il dibattito, congelato in attesa dello sbocco della crisi del governo Berlusconi. Morando aveva sollecitato Bersani a un cambio di passo: le elezioni anticipate non ci saranno, la fase emergenziale è chiusa e quindi, scriveva Morando, la proposta di una santa alleanza da Fli a Sel diventa "semplicemente insostenibile". Oggi la replica del segretario. Una risposta che Morando considera "legittima" ma "sbagliata". E per chi nel Pd la pensa come lui, è arrivato il momento di organizzarsi in vista del prossimo congresso.

Con una proposta alternativa e una nuova leadership, dice il senatore. Torna in pista Walter Veltroni? "Non è detto che si debba riproporre quella leadership. Magari non è adeguata per la fase che dovremo affrontare e magari – osserva Morando – nemmeno lui ha intenzione di riproporsi. Le personalità, comunque, sono molte". Personalità magari come Matteo Renzi, tanto per fare un nome. Non c’è solo Morando ad uscire allo scoperto tra i Modem, la minoranza critica del partito. Stefano Ceccanti, ad esempio, a proposito dell’alleanza con il Terzo polo osserva: "Bersani dice che alle amministrative si farà l’alleanza con il Terzo Polo, ma mi pare che abbiano già deciso di andare soli nelle grandi città e non è affatto scontato che sostengano i nostri candidati ad un eventuale secondo turno. Potrebbero anche schierarsi contro di noi o lasciare libertà di voto ai propri elettori. Quindi, a maggior ragione, credo che sia necessario un cambio di passo. Bersani sbaglia a non affrontare una revisione".

La linea alternativa proposta da Modem è quella della vocazione maggioritaria, per intendersi. Senza contare che anche dal Terzo Polo non arrivano reazioni esattamente calorose all’intervista di Bersani. "È evidente", taglia corto il coordinatore di Fli, Roberto Menia, che il patto tra Terzo Polo e Pd non si farà visto che "la nostra prospettiva è quella della costruzione di un centrodestra alternativo al centrosinistra". Il partito di Via del Nazareno, insomma, non sembra esercitare un appeal irresistibile presso gli altri protagonisti dell’arco costituzionale. Scacciare via le nebbie, d’altra parte, non è affatto facile per una formazione politica che ha perso 23 parlamentari in tre anni e nelle ormai imminenti elezioni amministrative a Milano, Torino e Napoli sembra orientata a schierare un candidato proveniente dal partito soltanto a Torino, con Piero Fassino.

La strategia elaborata da Pier Luigi Bersani segna, dunque, il passo. E dire che il segretario democratico ha provato ad esplorare tutte le mosse tattiche. Ha tentato di incunearsi tra il Pdl e la Lega. Ha provato a mettere in piedi l’alleanza patchwork, la "santa alleanza" con cui cucire in un unico tessuto la sinistra estrema e i casinian-finiani. Ha inseguito Antonio Di Pietro sul terreno dell’antiberlusconismo doc, senza se e senza ma. Alla fine di questo andamento erratico e disordinato il segretario sembra ormai investito da una ondata di malumore di ritorno. Dentro il partito l’inquietudine inizia a farsi strada, come spiega l’ulivista Mario Barbi: "Prima siamo stati tutti impegnati nella sfiducia al governo Berlusconi per sostituirlo con un governo di larghe intese; poi abbiamo dato tutti battaglia per chiedere le dimissioni di Berlusconi per l’affaire Ruby; poi abbiamo inseguito la magistratura. Tutti questi tentativi sono falliti. Una riflessione su una linea la dobbiamo pur fare". Il timore di un avvitamento nella protesta inizia, dunque, ad essere percepito a diversi livelli. Così come la preoccupazione che il tentativo di spallata si trasformi più banalmente in una contusione e la strada per trasformare l’indignazione in una credibile alternativa di governo si riveli ancora una volta del tutto impraticabile.