Il Pdl, la vittoria di Piazza San Giovanni e altre considerazioni
30 Marzo 2010
E’ presto per le analisi sistemiche e per i calcoli politologici, ma il risultato delle elezioni regionali ci suggerisce molte interessanti considerazioni sparse che forse è utile mettere assieme in attesa che si compia un disegno più coerente. Proviamo a elencarle…
1) Il centro-destra ha vinto queste elezioni a Piazza San Giovanni lo scorso sabato 20 marzo. Per questo il successo è dei protagonisti di quella giornata: Berlusconi e Bossi in primo luogo e poi quello di tutti i candidati che si sono ritrovati su palco a stringere il patto con i loro elettori.
Berlusconi non si è fatto spaventare dalla baldanza di Bossi, dal vento in poppa della Lega, dalla retorica del “sorpasso” e si è tenuto stretto l’alleato decisivo.
Bossi non si è tirato indietro, si è mostrato leale in un momento che pareva di estrema difficoltà per il Pdl e per il suo leader. Poteva cogliere il suo trionfo in solitaria e invece l’ha condiviso.
Il rapporto tra i due e tra Pdl e Lega si conferma strategico e di lunga gittata. Le analisi che oggi dominano i giornali più vicini all’opposizione si dilungano sul potere ricattatorio della Lega, sul sorpasso in Veneto, sullo stato di soggezione in cui sarebbe finito Berlusconi ecc… Ma è difficile scrollarsi di dosso l’impressione che si tratti di un discorso auto-consolatorio: “Non ha vinto l’odiato Berlusconi, ma Umberto Bossi e ora saranno guai!”.
Ognuno si consola come crede, ma dovrebbe essere evidente ormai anche agli occhi della sinistra come da 15 anni a questa parte vince e governa l’alleanza tra Bossi e Berlusconi nel segno di una sostanziale stabilità. E che da 15 anni tutti gli scatafasci pronosticati tra i due si sono dissolti nel nulla.
Il sistema bipolare italiano, con tutti i suoi difetti, può benissimo reggere anche con i numeri usciti da questa tornata elettorale. Si è visto infatti che l’alleanza tra partito di solido profilo nazionale e uno di più netto insediamento territoriale funziona e ammortizza anche i travasi di voti legati a fattori più contingenti.
2) Il successo elettorale del centro-destra va valutato in chiave politica nazionale, come una sostanziale elezione di mid-term. Sotto questa luce, paragonato alle elezioni regionali francesi con la sonora sconfitta di Sarkozy e del suo governo, acquista ulteriore significato.
Nessuno si sarebbe sorpreso se in una situazione di crisi economica perdurante, con la disoccupazione ancora in fase di crescita e con una politica fiscale che è costretta dai conti pubblici a giocare solo di rimessa, le urne regionali avessero registrato risultati di condanna e di disaffezione per i partiti di governo.
E’ successo il contrario: l’astensione che in Francia ha penalizzato quasi esclusivamente Sarkozy, in Italia si è distribuita tra maggioranza e opposizione. Mentre i voti – quando si faranno i conti per bene sarà ancora più evidente – mostrano che se si fosse votato per le elezioni politiche il centro-destra avrebbe riconquistato ampiamente la sua maggioranza nel paese.
Il problema semmai è che in Francia il partito socialista è riuscito a presentarsi come un’alternativa convincente mentre in Italia la sinistra stenta ancora a darsi una fisionomia comprensibile per un elettorato non solo di protesta e di scontento (peraltro anche questa fetta di elettorato ora rischia di trovar casa da Grillo oltre che da Di Pietro).
3) Nella fotografia del successo elettorale del centro-destra manca un personaggio: Gianfranco Fini, il co-fondatore. Fini non era sul palco di piazza San Giovanni (con un inspiegabile soprammercato di stizza), si è tenuto lontano dalla campagna elettorale come fosse infetta, ha persino mollato i suoi stessi candidati. Non è facile entrare nella testa dei politici, facciamo fatica a capire quali calcoli abbiano suggerito a Fini il suo comportamento, quali tattiche abbiano animato le sue scelte. Il problema però è proprio questo: da troppo tempo Fini sembra immerso in calcoli e tattiche, mosse e contromosse, in un crescendo di nervosismo che non serve alla trasparenza dei suoi scopi.
Il quadro è talmente confuso che i suoi più stretti consiglieri possono lanciarsi oggi in analisi senza rete e senza realtà. Come Alessandro Campi che spiega al Corriere come Bossi sia ora pronto “a barattare il federalismo con il presidenzialismo” e come si profili un asse “Fini-Lega per le riforme condivise, contro il metodo Berlusconi”. In generale l’analisi dei finiani si riduce a constatare un calo dei consensi per il Pdl (che se ponderato con le regioni dove non si è votato e con i voti ai listini dei candidati presidenti, praticamente non esiste), per dire che Fini ha ragione nelle sue critiche e che il partito va cambiato.
La scorsa settimana si era appreso della nascita di “Generazione Italia”: sarebbe nata il 1 aprile, e – aggiungevano i suoi sostenitori – “non sarà uno scherzo”. Se possiamo dare un suggerimento, rimanderemmo la presentazione di qualche giorno, perché ora, all’indomani del voto, presentare la nuova creatura finiana il primo aprile sembrerebbe davvero uno scherzo.
4) Quello che il voto di domenica e lunedì ha mostrato è infatti l’incredibile resistenza di una “generazione Berlusconi” nel centro-destra. Verrebbe da dire miracolosamente, il canale di collegamento tra Berlusconi e gli elettori non si è interrotto né inceppato. Mesi di strologazioni sulla “fine del berlusconismo”, sul declino della fase carismatica del leader, sulla stanchezza del popolo del centro-destra sono state spazzate via dalle urne regionali. Piaccia o non piaccia (e a molti anche nel centro-destra non piace) la capacità di muovere consenso di Berlusconi non è affatto esaurita e anzi, nonostante gli autonomi successi della Lega, resta decisiva per mantenere il paese legato alle sue più profonde pulsioni moderate.
Si è forse voluto far cominciare il dopo-Berlusconi un po’ troppo presto, mentre è chiaro che questa fase non si è ancora conclusa. Forse i vertici del Pdl farebbero bene a fare una più attenta riflessione su questo dato, per meglio gestire la fase in cui si trovano invece di continuare a preconizzare e preparare quella in cui si semmai si troveranno.
5) La stessa riflessione dovrebbe farla a maggior ragione la sinistra. La cui capacità di interpretazione della realtà spazia da quella “meteorologica” di Bersani che davanti ai cancelli di Mirafiori sente “cambiare il vento” mentre quello è proprio il vento che lo spazza via da quasi tutto il Nord produttivo; fino a quella “pornografica” di Luttazzi secondo cui l’Italia che vota Berlusconi è come la femmina inculata che “urla ma gode”. Se il livello di analisi disponibile all’opposizione resta questo, la maggioranza ha poco da preoccuparsi. Ma non farebbe male all’intero discorso pubblico una percezione migliore da parte della sinistra di quello che gli accade intorno.
Ieri sera a Porta a Porta, quando ormai era quasi tutto chiaro, Andrea Orlando, portavoce del Pd, sosteneva che il Lazio e il Piemonte avrebbero dato delle sorprese e che il Pd si stava assestando come il primo partito d’Italia. Poco dopo è andata com’è andata, con la scomparsa del Pd al Nord, l’erosione al Sud e una magra e ostinata tenuta al Centro: “Il partito appenninico”, come lo ha chiamato Tremonti.
6) Una notazione finale la merita la sconfitta di Stefania Pezzopane nel rinnovo della provincia de L’Aquila, perché ci consente di fare una riflessione sull’assoluta inessenzialità della televisione per vincere le elezioni (lo stesso si potrebbe dire per la sconfitta di Brunetta a Venezia). La Pezzopane è stata una star della tivvù dal tragico giorno del terremoto sino ad oggi. Arrampicata sulle macerie con badile e microfono, mentre stinge la mano a Obama o abbarbicata a George Clooney, ospite in tutti i talk show col suo puntuale libretto sul terremoto, Stefania Pezzopane è stata l’icona televisiva del disastro, della protesta e della mobilitazione aquilana. Contro di lei ha vinto uno sconosciuto signor Del Corvo, che la tivvù al massimo la vede nel suo tinello. La notte magica di Santoro avrà forse regalato qualche voto a Beppe Grillo e forse recuperato dall’astensione qualche elettore del centro-destra sdegnato, ma l’idea che fosse ossigeno per elettori in apnea democratica fa ridere.