
Il Pdl, partito laico “in tutti i sensi”

22 Aprile 2012
Nello sfondo, che non può mai essere dimenticato perché, per dirla in termini marxisti, si tratta di un dato strutturale, c’è il fatto che oggi la globalizzazione presenta grandi difficoltà per il mondo occidentale, sia per gli USA e ancor di più per l’Europa, e che da ciò, e dall’altro ancora deriva la conseguente crisi sia del compromesso socialdemocratico, sia del liberismo reganiano e tatcheriano. Di qui un revival in una nuova versione dell’economia sociale di mercato dalla quale nella sostanza risulta distante la Merkel e la linea che finora il governo tedesco ha imposto all’Europa.
Detto tutto ciò, un ragionamento sui “valori non negoziabili” richiede una riflessione sul concetto di “laicità”. Ciò vale soprattutto per un Partito come il Pdl, nel quale vivono molte anime: da quella liberale a quella riformista, da quella patriottico-nazionale, a quella cattolico-liberale tenendo conto che per un verso An è prodotta da una storia e da un’identità originariamente assai nette che a Fiuggi ebbero un profondo rivolgimento e che, per parte sua, Forza Italia è sorta nel vivo di uno scontro politico durissimo per offrire un nuovo soggetto politico-culturale a tutta una vasta area politico-sociale di centro e di centro-sinistra rimasta scoperta in seguito ad una devastante iniziativa politico-mediatico-giudiziaria. Diciamo, non a caso, “vivono” e non “convivono”. Può, infatti, accadere che in un grande partito nazionale e pluralista come il Pdl vi siano posizioni diverse, anche su questioni rilevanti. L’importante è che non si affermi la logica del “pensiero unico”, ovvero che non si stabilizzi il primato ideologico di una visione del mondo sull’altra. Laico, peraltro, è chi sa avere un approccio non ideologico, non estremista, non totalizzante alla stessa laicità e riconosce l’importanza del riferimento altrui a una dimensione trascendente dell’uomo.
Che cosa intendiamo per "principi non negoziabili"…
Una “parte” del Pdl – una parte estremamente importante – si riconosce nel sistema di valori della Chiesa cattolica, ma questa parte non può diventare il “tutto”, se non al prezzo della perdita della laicità del Partito e, in ultima analisi, della sua stessa identità nella quale rientra in primo luogo il pluralismo. Il problema va aldilà della stessa condivisibilità o meno dei cosiddetti “valori non negoziabili”, e riguarda anche il rapporto che, con questi, deve avere l’azione politica. Trasportare di peso i valori di cui la Chiesa è portatrice dentro il linguaggio della politica, traducendola in punti seccamente politico-programmatici, può risultare alquanto arrischiato, anche per un cattolico, forse, soprattutto per un cattolico. Un’importante lezione ci viene su questo terreno sia da Alessandro Manzoni, sia da Alcide De Gasperi.
…e per "laicità
“Laico”, storicamente parlando, è l’aggettivo che connota ciò che si sviluppa al di fuori della sfera sacra, ma non necessariamente in opposizione a questa. In questo senso, il principio di laicità si afferma con l’autonomia reciproca tra diritto e sfera religiosa, ovvero tra regole giuridiche e precetti religiosi. Il precetto religioso, infatti, ha una struttura di carattere imperativo. La sua forma è il «tu devi fare questo». Il diritto, invece, lavora con proposizioni di tipo ipotetico: «Se fai questo, accadrà quest’altro». Nel primo caso, si parla all’individuo e alla sua coscienza. La posta in gioco è la sua salvezza e il rapporto con l’eternità. Nel secondo caso, si parla anche all’individuo, ma ci si rivolge soprattutto alla società: la posta in gioco è, per l’appunto, l’ordine sociale. È chiaro che le due dimensioni comunicano e sono, spesso, inseparabili. Ma inseparabili non vuol dire indistinguibili. Ed è nella capacità di operare tale distinzione il senso proprio della laicità.
Per questa distinguibilità passa la differenza tra gli ordinamenti occidentali e quelli dei paesi islamici. La laicità è, infatti, assente nell’Islam, dove, non esiste una linea di demarcazione tra sfera religiosa e sfera politica. Per questo, nell’Islam la distinzione tra peccato e reato non è così netta come in Occidente. Ma della laicità crediamo che si possano individuare due modi di essere.
Da una parte c’è un modo di intendere la laicità in maniera rigida e ideologica (il cosiddetto “laicismo”), tipico della tradizione giacobina. Esso è caratterizzato dalla volontà – a volte ossessiva – di “neutralizzare” – quasi bonificare, disinfettare – lo spazio pubblico rispetto a ogni tipo di identità religiosa. È emblematico il modo in cui è stata in gestita per anni, in Francia, la società multi-etnica al punto di porre in essere una forte – a volte feroce – determinazione nel negare legittimità a qualsiasi elemento di “riconoscibilità” dell’identità religiosa nello spazio pubblico.
Un modo completamente opposto di intendere la laicità è quello della cultura costituzionale anglo-americana. In Inghilterra, ad esempio, dopo qualche incidente giudiziario, la questione dell’abbigliamento religioso è stata risolta in maniera molto pragmatica.
In questo quadro la stessa laicità della Repubblica italiana ha ben poco a che vedere con quella affermatasi in Francia.
Gli atei devoti e la lezione di Galileo
Questo tipo di approccio laico alla laicità ci consente anche di guardare con obiettività alla crisi dell’individualismo liberale. Su questo punto, a nostro avviso, hanno dato un contributo positivo da un lato i cattolici liberali, ben diversi da quelli integralisti, e i laici che non sono laicisti anticlericali: entrambi hanno contribuito a mettere in crisi alcuni storici paradigmi ideologici italiani, in base ai quali o si stava con la Chiesa, e si era clericali, o si stava dalla parte della libertà di coscienza, e si era contro la Chiesa.
C’è, peraltro, il rischio, (il mio riferimento è ai cosiddetti atei devoti) che quando si scopre la chiesa e il cattolicesimo e se ne apprezza la forza ordinatrice e la grande capacità di rielaborare e far vivere il passato nel presente, di cadere in una sorta di entusiasmo da neofiti.
La Chiesa, infatti, pensa e agisce in uno spazio-tempo diverso da quello della cultura secolare. Essa ha posizioni e preoccupazioni, anche del tutto legittime, ma che però non possono interferire a tutti i costi con l’attività del Legislatore. È questo, peraltro, uno dei principali insegnamenti che ci viene proprio da un maestro del cattolicesimo liberale, come De Gasperi, che pur essendo stato uno dei fondatori del partito unico dei cattolici fu geloso custode della laicità dello Stato e dell’autonomia della politica come dimostrarono i suoi scontri con un pontefice della statura di Pio XII.
La difesa della vita. Alla ricerca di un approccio laico (nè clerico-clericale nè laico-clericale)
La politica ha la responsabilità di dare risposte immediate e praticabili, non di enunciare o custodire verità eterne. Ad esempio, per entrare più nel concreto troviamo sbagliato tradurre in termini legislativi l’opposizione legittima della Chiesa alla Ru486, laddove l’uso di questa è sottoposta ai vincoli di una legge già esistente, quale la l. 194/1978. Una volta che si sia riconosciuta, entro limiti ben precisi, la liceità dell’aborto, non si comprende per quale ragione tale pratica debba essere necessariamente resa il più “afflittiva” possibile.
Analogamente, proponiamo un approccio laico a tutte le altre questioni connesse al tema della “vita” e, in particolare, alla procreazione medicalmente assistita e al cosiddetto “testamento biologico”, delle quali di recente il Legislatore s’è occupato, con alterna fortuna.
Per quel che riguarda la procreazione medicalmente assistita, l’attività del Legislatore nasce dall’esigenza di dare la possibilità di avere figli anche a chi, pur essendo in età potenzialmente fertile, è tuttavia sterile o infecondo. Purtroppo, però, sulla base di quello che a nostro avviso è un assunto di tipo metafisico (l’embrione “è persona”), s’è stabilito di introdurre pesanti e non condivisibili limitazioni in questo campo. Infatti, dopo un po’ è intervenuta la Corte costituzionale (sent. 151/2009), che ha dichiarato illegittimo l’art. 14, comma 2, della legge 40/2004 limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”: la previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna, si pone, infatti, in contrasto con i principi costituzionali di “ragionevolezza” ed “eguaglianza” (art. 3 Cost.), poiché il legislatore riserva lo stesso trattamento a situazioni dissimili, e con l’art. 32 Cost., perché in quel modo si mette in pericolo la salute della donna, ed eventualmente del feto, ad esso connesso.
Tra tutte le questioni concernenti la “vita”, quella del testamento biologico più di altre avrebbe dovuto essere lasciata fuori dall’ambito legislativo. Ma in questo caso, il legislatore è stato, come suole dirsi, “tirato per la giacca”. Dietro l’attività legislativa sul testamento biologico non c’è alcuna ossessione di voler legiferare su ogni cosa, alcuna pretesa di risolvere per via giuridica questioni tanto delicate ma a provocare l’intervento della legge è stato chi, mi riferisco in primo luogo al dott. Englaro, ai radicali, e a una parte del Pd, che senza di essa, su questo terreno delicatissimo ha voluto innovare rispetto alla storica sapienza comportamentale ispirata dal rapporto di fiducia fra il paziente, il medico e la famiglia e, con un’operazione giacobina, ha voluto far intervenire la magistratura addirittura senza una legge regolatrice, che è il massimo della forzatura.
A quel punto, non si poteva che intervenire per via legislativa. Il progetto di legge attualmente davanti al Senato è il risultato di un complesso lavoro di equilibrio, poiché si trattava – e si tratta – di “bilanciare” e di conciliare valori potenzialmente in conflitto, come la sacralità della vita, da una parte, il diritto a rifiutare le cure da parte dell’ammalato, dall’altra. Ma su questo tema, mi fermo per ragioni di tempo.
La "verità sinfonica" dei moderati e popolari europei
I principali sostenitori di una politica equilibrata sul terreno che stiamo affrontando in questo convegno sono peraltro proprio i partiti del centrodestra in Europa che hanno espresso indicazioni o scelte alcune delle quali, come vedremo, vanno aldilà non solo delle posizioni da voi sostenute ma, in qualche caso, anche di quelle condivise dal sottoscritto.
Il segnale in questa direzione venne proprio dal Ppe, al Congresso di Berlino del 2001, dove c’è stata un’apertura alle unioni affettive diverse dal matrimonio tradizionale.
In Francia, dove si sono realizzate importanti politiche a favore della famiglia tradizionale, fin dal 1999 viene riconosciuto il patto civile di solidarietà tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso, che offre tutela alla convivenza sul piano giuridico.
È, inoltre, nota, in materia, la posizione dei conservatori britannici. Sulla legge attuale, il Civil Partnership Act 2004, che riconosce alle coppie dello stesso sesso la possibilità di vincolarsi in una unione registrata certo diversa dal matrimonio, i conservatori lasciarono libertà di scelta ai parlamentari e, nella pratica, ne agevolarono l’approvazione.
In Germania la Cdu addirittura non ha messo in discussione il principio della parità di trattamento tra coppie etero e omo stabilito dalla Corte costituzionale tedesca nel 2009.
Principi non negoziabili e primato della politica
A nostro avviso la storia tragica del XX secolo e la imprevedibilità e la difficoltà dei problemi attuali che travagliano il mondo contemporaneo ci insegnano che la politica dovrebbe comunque esprimere la capacità della decisione responsabile, ma anche dalla necessità di procedere per successive approssimazioni della esigenza della mediazione della disponibilità a cambiare parere o ad adottare nuove soluzioni. Per questo, non si può imprigionare la decisione politica dentro le logiche della verità religiosa. Non perché si rifiuta la possibilità che esista una verità, ma perché si è consapevoli che qualsiasi agire umano è esposto all’errore e non può avere il crisma dell’infallibilità. Il politico agisce, sapendo di poter sbagliare: questo il suo limite, questa anche la sua forza, questa l’origine della sua autonomia. La Chiesa stessa si aspetta una tale autonomia e si misura con essa in un confronto il cui esito non può, per definizione, essere deciso in partenza.
Ritengo che tra i principi irrinunciabili del Pdl vi debba essere il “no” chiaro e netto allo Stato etico in tutte le sue possibili versioni.
Lo Stato etico è la negazione dello Stato di diritto, del principio di laicità e della stessa dignità della persona. L’idea che possa esistere una verità di stato offende la coscienza e legittima ogni abuso in danno alla persona. Nella Repubblica italiana non esiste una ideologia di Stato. No alla verità di stato e no allo stato etico significa, ad esempio, dire sì al pluralismo educativo e formativo e sì al garantismo in materia penale con tutte le implicazioni conseguenti. Benché nella nostra Costituzione non si parli di una verità di stato, per molti decenni il sistema educativo italiano è stato imbrigliato negli schemi ideologici dominanti della sinistra, la cui difesa della scuola pubblica spesso è diventata, in effetti, una battaglia contro il pluralismo culturale e formativo. La stessa svalutazione del ruolo della famiglia rientra in questa logica. Per questo, siamo sicuramente favorevoli a valorizzare, anche sul piano legislativo, la tutela particolare che la Costituzione accorda alla famiglia, intesa come unione di un uomo e di una donna, società naturale fondata sul matrimonio. Questo, però, laicamente ragionando, non può impedirci di tutelare altre forme di affettività, che se non possono avvalersi del titolo di “famiglia”, non di meno sono relazioni interpersonali nelle quali, come dice la Costituzione, si sviluppa la personalità dell’individuo e che quindi, senza metterle sullo stesso piano della famiglia, vanno nei dovuti modi, riconosciute e garantite.
Non a caso in tutti questi anni il punto d’incontro tra clerico-clericali e laico-clericali è stato rappresentato dallo Stato etico, che, in soldoni, nel contesto italiano, vuol dire “Stato dei pubblici ministeri”. A ben vedere, tutto si tiene. Sempre non a caso, per definire la cultura di certi pubblici ministeri, si usa l’aggettivo “inquisitorio”, che i lettori del Manzoni – e specialmente della Storia della colonna infame – conoscono in tutte le sue accezioni. Il funzionamento della giustizia, in Italia, ha risentito di un forte impianto ideologico di tipo “clericale”: a partire soprattutto dagli anni Settanta, è stata volta spesso, almeno per quel che riguarda i pubblici ministeri, non tanto alla tutela di determinati beni giuridici, quanto all’affermazione di alcune scelte ideologiche e di alcune posizioni politiche. Così si giudicano le persone e le storie, come accade per certi aspetti nel diritto islamico, non gli specifici comportamenti. Si tratta di una visione non laica ma ideologico-clericale della giustizia, che ha portato al panpenalismo e al giustizialismo odierni.
Ovviamente, diciamo no anche alla neutralizzazione della religione nella sfera pubblica, ovvero al laicismo di Stato. La libertà della Chiesa rappresenta un valore da custodire in maniera rigorosa. Anche quando non si concordi – e a noi talora accade, sia pure in modo non sistematico e pregiudiziale – con quello che la Chiesa chiede o insegna, gli impulsi che da essa vengono alla società civile sono il miglior antidoto contro la presunzione di potere dare la risposta definitiva a ogni problema per via legislativa e contro il rischio dell’autoreferenzialità della politica.